Piazza della Loggia. Parla Mario Tuti, il killer di Buzzi: “Anni di piombo, ecco la mia verità”

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Mario Tuti. Chi è (scheda)
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(Ph. La Presse)

“Di una cosa sono sicuro: noi le stragi non le abbiamo fatte. Siamo stati usati come capro espiatorio poiché nessuno poteva o voleva difendere dei fascisti: eravamo solo carne da macello”. Detto questo, si volta verso il caminetto annerito dal fumo e con l’attizzatoio fa rotolare il massiccio ceppo fino ad avvolgerlo con le fiamme.

“In tutte le stragi c’è lo zampino di gente dei servizi, questo è ormai chiaro, e dunque anche l’ipotesi che dietro a quelle consumate negli anni Settanta e Ottanta possa esserci stato il gruppo Bilderberg, come ha di recente ricordato il giudice Ferdinando Imposimato, può essere ragionevole. Io, però, mi sono fatto un’altra idea”.

Annuisce pacato Mario Tuti, l’ex tranquillo geometra comunale di Empoli che nel 1975 – allora era sposato e padre di due figli – uccise a colpi di revolver due dei tre agenti di polizia che si erano presentati a casa sua per arrestarlo. Da quel momento entrò in clandestinità.

Lui è la “primula nera” che, arrestata in Francia, viene estradata in Italia e da 38 anni vive in prigione. Cinque li ha trascorsi ai “braccetti della morte”, nei reparti cioè di massima sicurezza e isolamento.

Sessantasette anni, alto, il fisico atletico lievemente appesantito dallo scorrere della vita, i baffi – un tempo neri – ormai schiariti, Mario Tuti è stato il fondatore del Fronte Nazionale Rivoluzionario, condannato a due ergastoli – per il duplice omicidio ad Empoli e per l’eliminazione di Ermanno Buzzi -, assolto per la strage al treno Italicus e per gli attentati sulla linea Firenze-Roma.

E’ stato inoltre a capo della clamorosa rivolta di detenuti che il 25 agosto 1987 ha messo a ferro e fuoco il penitenziario di Porto Azzurro, all’isola d’Elba.

La sua storia è intrisa di sangue, di ideali (“Eravamo spinti dall’idea di voler dare testimonianza del nostro esserci: c’era la stata la sconfitta della Repubblica sociale e noi, ahimè, non c’eravamo… ”), di “istinto di morte” ma anche di ripensamenti profondi e di riscatto. Quest’uomo infatti, figlio di un badogliano, è anche colui che dal 2004 gode del regime della semilibertà, che si è laureato in Scienze forestali, si è appassionato di ippoterapia, e che lavora, dal lunedì al venerdì, in una comunità di recupero per tossicodipendenti e in una casa-famiglia per bambini. Di sera rientra in galera; in quella casa circondariale di Tarquinia che ha fatto da location a molti film, tra cui “Vallanzasca. Gli angeli del male”.

E’ stato lui, a quel tempo detenuto nel carcere di massima sicurezza di Novara, a sopprimere, con Pierluigi Concutelli, in una mattina di primavera del 1981, un fascista bresciano di “secondo piano”, Ermanno Buzzi, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia.

Un assassinio messo in atto per chiudere la bocca a un soggetto che qualcosa di quel terribile fatto sapeva?

“Ma no”, risponde con netta inflessione toscana, “intorno a quell’omicidio sento ancora fare ricostruzioni assolutamente fantasiose, quando la realtà è un’altra, ed è evidente. Su Quex (il bollettino ciclostilato dei detenuti politici nazional-rivoluzionari del tempo, ndr) pubblicammo un articolo in cui parlavamo delle varie stragi; in merito a Brescia, scrivemmo che Buzzi era un confidente dei carabinieri, vicinissimo al capitano Delfino, e lo definimmo un corruttore di giovani”.

L’ex “prigioniero di guerra” – come amava qualificarsi una volta -, che affrontava i processi col saluto romano, si ferma ancora un attimo, si accende un sigaro e ravviva il fuoco. Quando ripone l’attizzatoio gli occhi tornano mobili dietro gli occhiali in metallo che da qualche lustro hanno sostituito quelli “alla Peppino di Capri”.

“Va sempre considerato il clima che si respirava in quegli anni – erano anni feroci – ma pure la situazione che noi fascisti stavamo vivendo: c’erano stati gli arresti per la strage di Bologna e le accuse, del tutto ingiuste, di essere gli autori degli attentati. Quando ci siamo trovati lì Buzzi, ci siamo chiesti: ma che pensa? Che noi si accettino le immondizie? Non ricordo se ne parlai brevemente con Concutelli, ma mi chiesi che senso avesse che ci mandassero a Novara un loro confidente. Buzzi è qui come provocatore, riflettei, e c’è il rischio che se un domani, in tribunale, affermasse di aver raccolto delle nostre confidenze, possa pure essere credibile”.

Ed è così che il 13 aprile 1981, durante l’ora d’aria, il 35enne Conte di Blancherie (così Buzzi si faceva chiamare) che portava tatuato sulla mano il simbolo delle SS, e che, secondo alcuni, veniva utilizzato dal futuro generale di divisione dei Carabinieri Francesco Delfino – allora al Sismi – anche per polverizzare l’attenzione della stampa e dei magistrati dal Mar di Carlo Fumagalli, viene attirato da Tuti e Concutelli in un angolo del cortile e strangolato con un laccio da scarpe. “Probabilmente lui stesso è stato vittima del gioco di qualcuno dei servizi. Non credo che siano in molti a ricordare il fatto che, quantomeno inizialmente, la sua famiglia si era costituita parte civile contro il Ministero. Poi, però, questa costituzione l’aveva ritirata. Perchè?”.

La ricostruzione di Tuti sembrerebbe confermare i sospetti secondo cui un Buzzi alquanto preoccupato, perchè convinto di essere stato abbandonato dopo la condanna, aveva manifestato l’intenzione di rivelare alcuni clamorosi particolari sulla strage del 28 maggio ’74. Per suffragare dunque le proprie dichiarazioni avrebbe dunque accettato il trasferimento nel carcere di Novara, nonostante fossero lì detenuti alcuni camerati a lui ostili. Mario Tuti rammenta poi che “nella fatal Novara facemmo una inchiesta che coinvolse i diversi gruppi dell’arcipelago nero, bresciani compresi. Con qualcuno di questi non avevamo rapporti, non li conoscevamo; perciò per noi avrebbero potuto benissimo essere implicati nella strage. Chiaro che in questa inchiesta non erano previste garanzie processuali: si doveva solo dire la verità, senza reticenze o menzogne, pena la sanzione estrema. Quel che ne risultò fu che nessuno di noi era implicato in quei massacri né aveva conoscenza di camerati coinvolti”.

Secondo lei la pista che sta seguendo la Procura e che ha portato all’assoluzione anche in appello degli imputati Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e del generale dei Carabinieri Francesco Delfino, non sarebbe dunque quella giusta?

“Secondo me non lo è. I magistrati stanno continuando a percorrere una strada che, a oggi, non li ha portati a niente, nonostante tutti i metodi usati per accertare la verità. Forse dovrebbero avere un po’ più di onestà intellettuale, o di intelligenza, e affidarsi ad altre ipotesi”.

Su questo punto di recente c’è stato un collaboratore di giustizia che ha effettivamente indicato un’altra possibile pista investigativa. Una pista che porterebbe a un gruppo ordinovista di Verona.

“I veronesi non li conosco ma è curioso che a cadenze regolari continuino ad uscire nuovi pentiti”, dice, sorridendo sotto i baffi. “Cambiano i pezzi ma, è incredibile a dirsi, lo scenario rimane lo stesso”

Lei è stato interrogato nell’ambito di tutti i procedimenti penali che hanno riguardato le stragi italiane e, su Brescia, dice di essersi fatto un’idea. Quale sarebbe?

“Da questa strage chi ha avuto modo di trarre qualche vantaggio? I fascisti extraparlamentari? Non mi risulta. La destra istituzionale? Non mi pare. Chi è entrato dunque nella stanza del potere negli anni Settanta?”, domanda con espressione sfingea prima di fornire egli stesso la risposta: “Il partito comunista”.

“Il Pci deteneva un apparato ai miei tempi ancora funzionante. Io stesso ho avuto per le mani delle armi che provenivano dai suoi depositi. Si pensi che ancora negli anni Settanta disponeva di una rete telefonica autonoma che utilizzava le linee elettriche. Dietro la strage di Brescia – così come dietro l’Italicus, come Tuti ha peraltro dichiarato nel 2010 al giornalista Pino Casamassima, ndr secondo me c’è l’apparato militare del Pci, non certo il partito ufficiale. Possono essere poi intervenuti i servizi segreti di molti Paesi: dell’Est Europa, per esempio, o quelli israeliani, o la Cia. Ma chi, oggi, dovrebbe confessare? Chi potrebbe ammettere di avere un simile peccato originale? Sono domande, queste, che tuttavia non sta a me fare: ritengo siano altri, e mi riferisco ai magistrati, a dovere al Paese qualcosa”.

La teoria che Tuti espone meraviglia parecchio per la sua infondatezza e onestamente, più che offrire uno spunto investigativo alternativo, denota l’ideologia che ancora, con tutta evidenza, resiste in lui.

Le vittime delle stragi, i loro famigliari, il Paese, potranno mai conoscere la verità?

“La nostra è la società dei documenti. Di documenti che scompaiono e poi ricompaiano. E’ accaduto anche a me nel processo per l’Italicus. Il nostro è il Paese delle continue pressioni politiche e istituzionali. In tutta franchezza non lo so se la verità verrà mai portata alla luce… non mi pare proprio che ci sia l’intenzione di farlo”.

Monica Zornetta (Corriere della Sera, 5 febbraio 2013)