Ferdinando Camon e lo stragismo. «In quegli anni il potere era complice»

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25/07/2015

Esiste un diritto di strage? E’ il 1975 quando lo scrittore padovano Ferdinando Camon, reduce dal successo europeo del suo primo romanzo, Il Quinto Stato, si pone questo provocatorio interrogativo. In nome di che cosa sono stati progettati i terribili attentati che hanno insanguinato il Paese a partire dal decennio precedente? C’è una logica dietro a quella cruda volontà di distruzione?

Si era, a quel tempo, nel pieno degli anni di piombo. In Italia c’erano le lotte operaie, le occupazioni studentesche, le manifestazioni nelle piazze che spesso sfociavano in violenti scontri, i danneggiamenti delle sedi di partiti politici e di sindacati. E c’erano le bombe, fatte esplodere, a partire dal 25 aprile 1969, soprattutto in luoghi pubblici come stazioni ferroviarie e treni, fiere campionarie, banche, piazze, con l’intento di ferire, ma soprattutto uccidere il maggior numero possibile di persone.

Feriti a Milano, in via Fatebenefratelli, a seguito dello scoppio di una bomba in Questura il 17 maggio 1973.

Fino a quel 1975, quando cioè lo scrittore decide di racchiudere in un nuovo romanzo, che intitola Occidente, le conclusioni di una sua personale indagine sulle ragioni profonde del terrorismo stragista, le bombe avevano ucciso e ferito molti civili e anche alcuni appartenenti alle forze dell’ordine. Ma non avevano smesso di esplodere. Lo faranno solo dopo la carneficina alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980: un’azione a cui “Occidente” offrirà, senza volerlo, un  movente, una sorta di diritto alla sua esecuzione.  «In quei primi anni Settanta il mio obiettivo, come scrittore e romanziere, era quello di capire; per farlo dovevo entrare nel cuore dell’ideologia stragista. Per ciò ero andato a documentarmi alla libreria di Franco Freda, in via Patriarcato a Padova, aperta solo di giovedì dalle dieci della sera alla mezzanotte: la “Libreria di Ar”, dove Ar è l’iniziale della divinità indoeuropea Ares, il dio Marte, della parola greca Aretè, che significa virtù, di Aristocrazia e di molti altri termini che rimandano alla destra estrema», esordisce Camon, 80 anni a novembre, dal salotto della sua grande casa nel quartiere universitario di Padova; la stessa abitazione dove, a causa delle ripetute minacce di morte seguite all’uscita di Occidente, lui e la sua famiglia avevano dovuto vivere a lungo sotto la stretta sorveglianza della polizia. «In mezzo a parecchio materiale proibito dalla magistratura e a testi altrove irreperibili, mi aveva incuriosito un fascicolo anonimo intitolato La disintegrazione del sistema, che conteneva il testo di una conferenza tenuta a Ratisbona nel 1969 da un oratore/autore che non si nominava ma che era Franco Freda. Dentro quel fascicolo avevo trovato alcuni concetti davvero utili per il mio lavoro e decisi di riprenderli nel libro: era necessario fare una strage, sentenziava l’anonimo, perché era necessario spaventare il popolo, farlo sentire insicuro nei treni, nelle navi, negli aerei, in modo che così “inginocchiato”, aspirasse all’arrivo di un potere in grado di portare l’autorità, l’obbedienza, l’ordine, la sicurezza. Un potere, insomma, di estrema destra. Mai avrei pensato che, dopo la strage alla stazione di Bologna, la polizia recuperasse nel covo del nucleo terroristico alla quale veniva attribuito l’attentato, un quaderno contenente un intero capitolo di Occidente, scritto a mano con caratteri maiuscoli. Il movente, secondo la polizia, della strage».

L’“anonimo” promotore di queste idee stragiste, Camon lo ha incontrato più tardi, dopo l’uscita del film che la Rai nel 1978 ha tratto dal suo libro. «Franco Freda aveva ritenuto di essersi riconosciuto nel protagonista del film e aveva sporto denuncia, ma, condannato all’ergastolo, aveva perso i diritti civili, cosicché il processo, a quel punto, non ebbe luogo. Una volta riabilitato con la piena assoluzione, mi aveva chiesto un incontro con l’accordo che ciascuno dei due esprimesse le proprie ragioni e che queste fossero pubblicate. Il  dialogo, avvenuto nella sua casa a Brindisi, è uscito in appendice ad Occidente».

Lo scrittore ricorda quell’incontro con un certo disagio. E non solo per i grandi ritratti fotografici delle Waffen SS che l’ordinovista padovano teneva appesi alle pareti. «Aveva fatto un discorso molto forte, da leader della destra eversiva, dittatoriale, che rivendicava per sé il destino di capo con diritto di vita e di morte, che aveva in testa un progetto di storia che il capo, e coloro che a lui erano sottoposti, dovevano fare proprio anche a costo della vita, poiché avrebbero trovato in questo percorso il loro destino. Il capo stesso, nel discorso pronunciato da Freda, era servo del suo progetto, e dunque agiva non come egli avrebbe voluto ma come il suo stesso progetto richiedeva. Secondo me, tuttavia, l’intera eversione di destra voleva, con le stragi (Milano, Brescia, Italicus, Bologna), predisporre il popolo ormai impaurito alla cieca obbedienza ad un regime autoritario di tipo militare. Il terrorismo di sinistra, invece, seguiva una via diversa: non organizzava stragi ma sequestri di persona e omicidi al fine di ricattare il potere, di intimidirlo, come è successo con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, per esempio».

Il sindacalista Franco Castrezzati parla ai lavoratori bresciani radunati in Piazza della Loggia pochi istanti prima dell’esplosione, il 28 maggio 1974.

Quando si arriva a parlare del potere, e del ruolo che esso ha giocato nella strategia stragista, Ferdinando Camon esita qualche istante prima di dire: «Mi sono più volte chiesto perché è sempre stato così difficile scoprire e condannare a destra; perché Freda è stato prima condannato e poi assolto. La sola risposta che mi dò è che il potere era complice. La destra estrema, in questo suo progetto, aveva parlato con i capi militari delle forze armate e aveva delle intese con i capi dei servizi segreti, con la polizia eccetera: intese che non vennero meno dopo la scoperta dei responsabili, dei processi, delle condanne. L’Italia ha queste colpe, purtroppo». Quanto alla strage di piazza della Loggia, l’intellettuale padovano è convinto che «differentemente da altri casi, dopo tanti anni la giustizia ha avuto delle testimonianze preziose che hanno permesso di scoprire chi portò la bomba a Brescia, chi la mise in quello specifico luogo. Certamente l’intera rete non salterà fuori, ma non è necessario che questo avvenga perché il funzionamento degli organismi violenti di allora avveniva in un modo preciso: attraverso un ordine impartito da un capo all’interno di un gruppo chiuso. Era come un sistema a compartimenti stagni per cui quando l’ordine passava dall’uno all’altro, chi lo aveva dato mirava a tirarsene fuori. E’ perciò sicuramente possibile risalire da chi l’ha materialmente eseguito a chi l’ha materialmente contattato, ma non al primo della catena, che ha invece potuto tranquillamente attendere di raccogliere i frutti dell’azione. Scaricata l’esecuzione della strage su elementi del tutto insignificanti, il capo ha potuto così pensare alla cosa più importante di tutte: partecipare alla spartizione del potere».

Monica Zornetta (Corriere della Sera, cronaca di Brescia, 19 settembre 2015)