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È l’impresa sociale lo strumento su cui dobbiamo puntare per trasformare il mondo, per ripristinare un rapporto equilibrato, sensato, tra il pianeta e le persone. E’ grazie alle imprese sociali – e non ai deboli accordi sul lunghissimo periodo assunti dai grandi della terra – se in Africa, ad esempio, e nei Paesi definiti “fragili” dal Fund for Peace, si sta cominciando a riflettere seriamente su alcuni dei temi che più incidono sulla possibilità di realizzare un cambiamento giusto e sostenibile: le pari opportunità e l’emancipazione femminile, lo sviluppo rigenerativo delle comunità attraverso l’acquisizione di competenze e la diffusione dell’istruzione.

Pochi giorni prima che i leader mondiali si riunissero a Roma e a Glasgow per discutere di clima, ambiente e sviluppo sostenibile, duecento tra imprenditori sociali e giovani da venti Paesi del mondo si sono dati appuntamento all’Isola di San Servolo a Venezia per dialogare con alcuni protagonisti dell’industria e della finanza sui nuovi modelli di business etico, sui modi con cui l’impact investing (gli investimenti ad impatto sociale) può favorire la crescita e lo sviluppo delle imprese e delle comunità, sulla necessità di cambiare sistema di mercato e sulla possibilità di avviare una piccola grande rivoluzione globale sostituendo alla cultura del profitto e della mera produzione di benessere un approccio sociale e green. L’occasione di questo lungo confronto è stata la quarta edizione del Social Enterprise Open Camp, il convegno formativo organizzato dal 23 al 26 ottobre dalla Fondazione Opes-Lcef insieme con il Consorzio Nazionale CGM per creare una sorta di piattaforma di condivisione di esperienze, competenze e idee tra attori nazionali e internazionali.

È l’impresa sociale lo strumento su cui dobbiamo puntare per trasformare il mondo, per ripristinare un rapporto equilibrato, sensato, tra il pianeta e le persone. E’ grazie alle imprese sociali – e non ai deboli accordi sul lunghissimo periodo assunti dai grandi della terra – se in Africa, ad esempio, e nei Paesi definiti “fragili” dal Fund for Peace, si sta cominciando a riflettere seriamente su alcuni dei temi che più incidono sulla possibilità di realizzare un cambiamento giusto e sostenibile: le pari opportunità e l’emancipazione femminile, lo sviluppo rigenerativo delle comunità attraverso l’acquisizione di competenze e la diffusione dell’istruzione.

Pochi giorni prima che i leader mondiali si riunissero a Roma e a Glasgow per discutere di clima, ambiente e sviluppo sostenibile, duecento tra imprenditori sociali e giovani da venti Paesi del mondo si sono dati appuntamento all’Isola di San Servolo a Venezia per dialogare con alcuni protagonisti dell’industria e della finanza sui nuovi modelli di business etico, sui modi con cui l’impact investing (gli investimenti ad impatto sociale) può favorire la crescita e lo sviluppo delle imprese e delle comunità, sulla necessità di cambiare sistema di mercato e sulla possibilità di avviare una piccola grande rivoluzione globale sostituendo alla cultura del profitto e della mera produzione di benessere un approccio sociale e green.

L’occasione di questo lungo confronto è stata la quarta edizione del Social Enterprise Open Camp, il convegno formativo organizzato dal 23 al 26 ottobre dalla Fondazione Opes-Lcef insieme con il Consorzio Nazionale CGM per creare una sorta di piattaforma di condivisione di esperienze, competenze e idee tra attori nazionali e internazionali.

Tante sono state le domande emerse nelle sessioni di lavoro, a partire da quella posta in apertura dalla presidente della Fondazione Opes-Lcef, Elena Casolari, AD di Opes Italia: «Come possiamo aumentare l’impatto di queste imprese affinché crescano e siano di successo?». Un quesito a cui ha cercato di rispondere, tra gli altri, Mario Calderini, docente del Politecnico di Milano, suggerendo, come possibile strada da seguire, quella di una maggiore diffusione dell’impact investing e delle pratiche di social procurement (le innovative relazioni tra imprese profit e del Terzo Settore, spesso legate alla fornitura di beni e servizi) ma anche la difesa dell’integrità dell’impatto.

Le istanze dell’Africa – la grande esclusa da tutte le decisioni globali, il continente dove la crisi climatica sta sempre più inasprendo le diseguaglianze ma anche dove la digitalizzazione dell’economia e l’introduzione di new tech avrebbe impatti molto più positivi che altrove -, sono state, invece, ben rappresentate al convegno dalle testimonianze di diverse giovani donne imprenditrici, che hanno esordito spiegando di aver «cominciato a fare impresa» perché volevano «cambiare la vita delle persone e aiutare le donne a realizzare i propri sogni anche in luoghi dove sembra impossibile».

La gran parte di loro ha deciso di concentrare il proprio business sull’erogazione di energie rinnovabili e nella produzione agricola, arrivando a far crescere alcune comunità locali attraverso la diffusione di consapevolezza, di benessere e la lenta conquista di nuovi diritti.  «Senza l’accesso all’energia non vi è accesso ai diritti civili”, ha spiegato Francesca Oliva, Chief operating di Equatorial Power. «Energia significa non solo illuminare, ma anche cucinare, comunicare, studiare e attualmente sono diverse centinaia di milioni i cittadini che non ne hanno accesso».

C’è bisogno di più persone di colore nei posti di comando, «e di più donne, anche nel mondo dell’energia”, ha aggiunto Francine Munyaneza, fondatrice di Munyax Eco, altra realtà che lavora con le energie rinnovabili. «Quando ero profuga nel Congo, vedevo le ragazze studiare in mezzo alla strada, sotto ai lampioni, e ciò mi ha reso sensibile al problema.  Dobbiamo rendere l’energia un bene per tutti ma, essendo una impresa, dobbiamo anche fare utili».

Obiettivi, i suoi, condivisi anche da Liliane Munezero Ndabaneze Chabuka, Ceo di WidEnergy, che nel 2013, dopo essere rientrata da un’esperienza negli Stati Uniti, ha deciso di lavorare in Africa per tentare di cambiare questo tipo di “progresso”: «E così sono rientrata in Zambia, un Paese dove, su 18 milioni di persone, 10 non hanno accesso all’elettricità», ha raccontato. «Quando arrivai, alcune infermiere mi raccontarono che non avevano energia elettrica e che le donne venivano fatte partorire con la luce dei telefonini. Non ero un’esperta di energia solare ma sapevo che se avessi voluto cambiare le cose, sarei dovuto partire da questo settore. Oggi 60 mila abitanti utilizzano i nostri sistemi».

«Ho lavorato con l’Onu ma poi ho lasciato perché non ho visto il cambiamento che mi aspettavo: cercavo un altro tipo di impatto e lo volevo a lungo termine», è stata la riflessione di Jane Maigua, Ad di Exotic Epz, nel Kenya, Paese leader mondiale nella produzione di noci di macadamia: «La nostra impresa attualmente ha 163 lavoratori, fa da mentorship a donne e giovani che si affacciano nel mondo del lavoro, è certificata ISO, ha aumentato gli introiti di 1500 volte in 4 anni e sta portando avanti un grande cambiamento nelle persone e nel territorio.  L’1% della terra agricola è oggi di proprietà di donne ed esistono progetti di finanziamento specifici per loro, anche se non è ancora semplice accedervi: le banche non hanno ancora capito che cosa facciamo e che se investono su di noi possono ottenere un profitto». Anche il settore moda è stato al centro del confronto, con le importanti esperienze di upcycling e rigenerazione come alternative virtuose al fast fashion.

Le imprese sociali, le donne e i giovani sono i veri motori del cambiamento del mondo, ha concluso Giuseppe Bruno, presidente di CGM, consorzio che riunisce 700 imprese cooperative italiane: «Al Social Enterprise Open Camp abbiamo visto come l’impatto positivo sulle persone e sull’ambiente si possa attuare solo grazie agli strumenti finanziari adeguati. L’impresa sociale è un luogo di ispirazione specialmente per i giovani perché permette di fare vera innovazione sociale».

Monica Zornetta (Avvenire, 21 novembre 2021)