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Non sono molte le aziende italiane ancora attive ad aver visto la luce nel Settecento; ad aver attraversato, pur tra le difficoltà, una guerra d’indipendenza e una “fredda”, due conflitti mondiali e una rivoluzione industriale. Il lanificio Paoletti, fondato nel 1795 – l’anno che ha preceduto la prima campagna d’Italia napoleonica – dal cavaliere Gaspare Paoletti sulle colline trevigiane del Valmareno, a Follina, è una di queste. La sua storia è fatta di successi e di crisi, di riforme e di compromessi ma, soprattutto, di una felice simbiosi con un territorio, ex dominio della Serenissima, dove fin dal Duecento si lavoravano lane e sete. Si potrebbe quasi dire che, senza il piccolo paese di Follina, il lanificio Paoletti non esisterebbe.

“Il toponimo Follina deriva da folloni, ovvero dai mulini e dalle gualchiere ad acqua con cui si follava la lana così da aumentarne compattezza, morbidezza ed impermeabilità”, rivela Paolo Paoletti, 37 anni, primogenito dell’attuale presidente del lanificio, Andrea.

Studi economici in Italia ed esperienze professionali a Londra, soprattutto nello staff della fashion designer Vivienne Westwood, da qualche anno Paolo ricopre la carica di amministratore insieme al fratello Marco. “In questo territorio, oggi così periferico, abbondavano allora i pascoli, le pecore, il legname, l’acqua dolce e la manodopera esperta: è per tali motivi che la manifattura laniera si è così profondamente diffusa e radicata fino a diventare, nell’Ottocento, la prima fonte di reddito per il paese e la terza per la vallata”. Un tempo, prima che aprissero le fabbriche, ogni famiglia di Follina aveva un telaio a mano e la lavorazione della lana avveniva nelle case. “Ad un certo punto, nel 17esimo secolo, si era arrivati ad averne tredici, di lanifici” continua Paoletti: “ciascuno provocò però grandi sconvolgimenti nel tessuto sociale del luogo poiché l’impegno in fabbrica impediva alle persone di fare anche altri lavori, come invece erano abituati. Ci sono leggende che raccontano come gli operai, pur di non stare nella fabbrica, scappassero dalle finestre”.

Negli anni Ottanta del secolo scorso anche Paoletti, come le grandi imprese della valle dell’Agno (Lanerossi e Marzotto in primis), ha dovuto interrompere la produzione. “Ma una volta ristrutturati siamo ripartiti con energie nuove”, continua il giovane manager: “Ci siamo concentrati sulla moda donna, avvicinando le lane cardate a un concetto di lusso sportivo, e avviando collaborazioni con Cp Company, Stone Island, Max Mara, Chloè, Saint Laurent. Oggi abbiamo venticinque dipendenti, produciamo 250 mila metri di tessuto l’anno, fatturiamo quattro milioni e mezzo di euro ed esportiamo in tutto il mondo”.

Paolo Paoletti rappresenta la nuova generazione di imprenditori lanieri follinesi: la sua visione glocal e l’attenzione che pone a questioni come la sostenibilità e l’etica disegnano quella che vuole essere l’azienda di domani. “Ci impegniamo per fare tessuti che non esigono l’uso di coloranti chimici e puntiamo a diminuire il consumo energetico. Abbiamo cominciato ad utilizzare la lana delle pecore della vicina conca dell’Alpago che consente di creare ottimi tessuti senza l’uso di tinture: per molto tempo questa lana è stata considerata uno scarto per via della sua fibra grossolana, ma noi l’abbiamo recuperata con successo”, dice ancora Paoletti. “Sul fronte energetico abbiamo ristrutturato una turbina del 1906 con la quale copriamo un quarto del fabbisogno della produzione”. Ma non è finita qui. “Facciamo un ampio sviluppo prodotto e a ogni stagione presentiamo oltre 200 nuovi articoli; divulghiamo una diversa cultura del lavoro e della conoscenza dei materiali attraverso manifestazioni come “La via della lana”, che da quattro anni coinvolge la comunità di Follina; siamo parte integrante della nuova rete di imprese tessili venete d’eccellenza Venice textile manifactures e stiamo ridando vita a un archivio che ci consentirà di trovare nuovi spunti e ispirazioni per il design futuro. Amiamo confrontarci con le nuove tecnologie e vogliamo che i nostri prodotti parlino di Italia e della capacità unica, inimitabile, dei suoi talenti di “think out of the box”, di pensare cioè fuori dalla scatola”.

Monica Zornetta (Avvenire, 19 agosto 2016)