Mafie d’importazione (da inchiesta: Mafie in Veneto)

Veneto, quali anticorpi contro la malavita?
02/04/2012
L’ospite indesiderato (dall’inchiesta: Mafie in Veneto)
02/04/2012

Al casinò municipale di Cà Noghera (Venezia) ogni sera c’è un bel via vai di clienti. Sono moltissimi i giocatori asiatici che arrivano da tutte le province venete per farsi baciare dalla Dea bendata e che, d’abitudine, lasciano sul tavolo verde cifre a quattro zeri. Di tanto in tanto in mezzo a loro si affaccia anche qualche malavitoso di grossa caratura. Proprio qui, nel 2005, è stato arrestato dai carabinieri di Treviso un giovane boss della criminalità organizzata cinese, ricercato in mezza Italia per rapina, sequestro di persona, traffico internazionale di stupefacenti e, non ultimo, per il coinvolgimento nel duplice omicidio di una madre e del proprio figlio avvenuto in provincia di Treviso nel corso di una rapina. La domenica in cui ha perso la libertà, Hu Bingqiu, 20 anni, soprannominato rana, era arrivato nella casa da gioco come un vecchio capomafia di altri tempi: a bordo di una fiammante Mercedes cabriolet, circondato da sei prestanti body guard e al centro delle attenzioni di docili e avvenenti fanciulle con gli occhi a mandorla. A consentire agli uomini dell’Arma di riconoscere Bingqiu in quello spregiudicato ventenne dai capelli biondi – tinti – e dal documento d’identità falso – intestato a un suo connazionale – è stata l’enorme disegno di una rana tatuato sulla spalla sinistra. Già nel 2003, segnalava la relazione 2006 della Direzione nazionale antimafia, al casinò lagunare i giocatori di nazionalità cinese rappresentavano il 18% della clientela. Tra quei tavoli si muovono per sfidare la fortuna (e riciclare denaro) con i giochi tradizionali, quelli che richiedono cioè una buona disponibilità di denaro contante: su tutti spiccano il mahiong, una sorta di domino, il sap tim pun, molto somigliante al sette e mezzo, e il poker a sette carte. Strettamente legato al gioco d’azzardo è il recupero crediti, che i malavitosi cinesi svolgono per mezzo di intimidazioni e di violenze perpetrate in gruppo. Ciascun gruppo è composto da un minimo di dieci a un massimo di cinquanta persone che si dedicano con assiduità ad attività come il traffico di clandestini, la contraffazione dei documenti, i sequestri di connazionali a scopo estorsivo, le offerte forzose di protezione ai danni di ristoratori e titolari di laboratori manifatturieri cinesi, le rapine, lo sfruttamento della prostituzione, la detenzione e il porto illegale d’armi, l’evasione fiscale, l’omicidio e la commercializzazione di merce contraffatta. Bande criminali cinesi sono particolarmente presenti a Padova e, comunque, un po’ in tutta la regione.

Un anno dopo l’arresto di Hu Bingqiu, le squadre Mobili di Venezia e Napoli, in collaborazione con diverse questure italiane, hanno decapitato una organizzazione di stampo mafioso – costituita da affiliati alla camorra, alla ‘ndrangheta e alla Sacra corona unita – che si dedicava alla clonazione di documenti di identità e di carte di credito (ma anche di biglietti “taroccati” per le partite di calcio e per i concerti) utilizzate in special modo all’interno del casinò di Cà Noghera. L’organizzazione aveva ai vertici un padre e un figlio espertissimi di informatica: con Vittorio Lo Monaco, sessantasettenne di origini palermitane, talmente abile da essere conosciuto con il nomignolo di ingegnere, agiva il trentanovenne Francesco. Insieme avevano messo a punto uno speciale software grazie al quale riproducevano qualsiasi tipo di documento. Altri due appartenenti all’organizzazione avevano il compito di modificare le apparecchiature per la lettura delle carte di credito originali copiando i codici su card vergini attraverso il dispositivo skimmer. Altri, ancora, erano incaricati di rubare i plichi postali contenenti le carte di credito originali che gli istituti inviavano ai legittimi titolari: una volta riprodotte le bande magnetiche, le carte di credito venivano rispedite ai proprietari come se nulla fosse.  A dare il via alle indagini erano stati gli strani movimenti tra i tavoli da gioco di un pregiudicato calabrese residente a Bologna, Gino Corticelli, scoperto mentre tentava di acquistare delle fiches con le carte di credito clonate. Un nuovo tassello del puzzle che potremmo intitolare “criminalità all’ombra del Santo” è quello che si è aggiunto in tempi recenti a seguito di alcune operazioni di polizia per il contrasto della contraffazione. A finire nel mirino della Guardia di finanza di Padova è ancora una volta l’“onnipresente” clan Licciardi (che sulla produzione e sul commercio di abiti “taroccati” ha fondato gran parte del proprio impero). Oggetto dell’operazione un’organizzazione italo-marocchina che produceva capi d’abbigliamento con marchio falsificato destinati alla rete commerciale del nordest e della Lombardia. Questa struttura era costituita da due soggetti campani legati alla cosca (il quarantaduenneenne Sergio Lettieri e Gennaro Grieco, di due anni più giovane), da una terza persona, pure questa proveniente dalla Campania, e da tre cittadini originari del Marocco ma residenti tra le province di Padova e Venezia. La sua peculiarità stava nell’utilizzo di manodopera esperta e nella distribuzione capillare e tempestiva dei capi, perfettamente identici agli originali e in grado di sbaragliare l’agguerrita concorrenza cinese.

Ma torniamo a quelle organizzazioni straniere che da tempo attraggono le attenzioni (e le azioni) delle forze dell’ordine e della magistratura. Si tratta di “strutture” criminali fortemente connotate dal punto di vista esoterico e del tutto indipendenti dalla malavita autoctona; strutture mafiose che godono di una forte tenuta interna grazie ad un collante particolare fatto di  omertà e superstizione. Stiamo parlando di “Black axe”,“Eiye Confraternity” e “Black barrett”, le sanguinarie bande nate in Nigeria come forme di culto dai movimenti studenteschi universitari e poi irraggiatesi in molti Paesi europei grazie al fenomeno migratorio clandestino. Costituita da reti dalla natura “camaleontica”, come ha scritto nel 2005 la rivista italiana di intelligence, Gnosis, la natura della mafia nigeriana si intreccia indissolubilmente con la natura della società nigeriana. “La necessità di aggregare utilmente distinte realtà locali in un unico mosaico ha favorito il sistematico e qualificato ricorso a forme organizzative orizzontali, fluide e trasversali. Esse compongono oggi il modello socio-politico, economico e di potere della Nigeria attraverso cui le lobby acquisiscono, gestiscono e controllano la collettività nazionale e le diffuse diaspore. Si tratta di una “grande rete clientelare territoriale”, che si dipana intorno a figure “carismatiche” capaci di potenziare i legami di tenuta interna, coalizzare risorse umane, materiali ed intellettuali ed orientarle verso progettualità politiche ed economiche. La rigida organizzazione, i rituali aggiornati opportunisticamente, il fideismo nazionale, la garanzia di protezione che attrae ed assume ancor più valore in un contesto destabilizzato da tensioni etniche, povertà e anomìa costituiscono fattori importanti che legittimano le élite e le qualificano in modo competitivo nei mercati globali.
“Tale situazione – continua l’articolo pubblicato su Gnosis – offre una più efficace chiave di lettura dell’associazionismo che permea ogni comunità nigeriana, anche all’estero. Esso si sviluppa attraverso forme associative che hanno più marcate connotazioni “mafiose” oppure per mezzo di filiere internazionali in cui interagiscono centri di interesse (professionale, etnico, universitario, religioso, settario, sportivo, umanitario), aperti anche a istanze criminali”.

L’organizzazione più presente in Veneto, specialmente nei territori di Padova e Verona, è l’agguerrita “Black axe”, l’“ascia nera”, costituita sull’esempio delle mafie italiane: è dotata di rituali, abbigliamenti e linguaggi propri (i più diffusi sono il taglio al pollice destro o le incisioni alle braccia: in questo caso il sangue che ne esce viene mescolato con acqua e alcool e dato da bere a ciascun adepto), di cerimonie di iniziazione violentissime, di squadre della morte, di un inossidabile culto dell’omertà e di feroci punizioni (“parade”) a colpi di machete.
Acerrimi nemici delle “asce” sono gli affiliati ad “Eiye”, la Suprema Confraternita (chiamata anche la “National Association of Air Lords”) contro cui sono in lotta da anni per controllare il traffico degli stupefacenti, il contrabbando, per gestire i phone center, le agenzie di money transfert e la prostituzione su Padova, Torino, Roma e Castelvolturno (Na). E proprio a Padova nell’estate 2011 è finito in manette un trentasettenne considerato l’astro nascente degli “Eiye” a Roma: Ehis Oyanmelen, soprannominato Big, rifugiatosi ai piedi dei colli euganei per sfuggire all’ondata di arresti abbattutasi sulla Capitale ma entrato in rotta di collisione con la banda di “stanza” in Veneto. Verso la fine del 2005 il Veneto è stato l’inconsapevole teatro di un episodio che poteva avere conseguenze terribili: un posto di blocco della polizia a Sommacampagna, nel Veronese, aveva sventato una “parade” degli Eiye di Brescia contro i Black Axe insediati nel territorio scaligero. Dentro il bagagliaio dell’auto su cui viaggiavano gli affiliati alla Suprema Confraternita, gli agenti avevano trovato un’ascia e un coltellaccio, destinato a essere utilizzato sui corpi dei nemici.
A riempire di inchiostro le informative sono anche le bande moldave, specializzate in furti di appartamento e nel traffico di tabacchi lavorati. È andata lentamente scemando, invece, la presenza delle organizzazioni albanesi, impegnate anch’esse nel controllo degli stupefacenti e della prostituzione.

Monica Zornetta (Narcomafie, 2012)