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«L’impresa è per noi una unità sociale: non è solo un attore economico ma è una comunità che, coltivando il proprio giardino come Voltaire fa raccomandare al suo Candide, contribuisce in misura determinante al progresso della società. Se ciascuna delle imprese che operano nel mondo coltivasse anch’essa il proprio giardino, potremmo, insieme, cambiare questo sistema ormai insostenibile».

Andrea Illy, 56 anni, presidente e amministratore delegato della Illycaffè, cita uno dei padri dell’Illuminismo – e la sua celebre metafora botanica – per spiegare come anche una impresa economica può aiutare a migliorare il mondo. «Coltivando il talento, l’impegno etico e la sostenibilità nella sua triplice declinazione: economica, sociale, ambientale. Siamo una stakeholder company i cui portatori di interesse, prima degli azionisti, sono i consumatori, i clienti, i collaboratori, i fornitori e le comunità», precisa l’ultimo dei quattro nipoti di Francesco Illy, l’asburgico fondatore della company triestina e l’inventore del caffè espresso. «Mentre gli attori della filiera produttiva ci garantiscono la qualità del prodotto, noi creiamo valore anche per loro, nel rispetto dell’ambiente: perciò più incrementiamo il nostro fatturato (attualmente è sull’ordine del mezzo miliardo di euro, ndr) e più interventi possiamo fare; e poiché consideriamo l’obiettivo economico il mezzo per il progresso, e non il fine, dallo scorso marzo abbiamo cambiato il nostro statuto, passando da società per azioni a benefit corporation».

Presidente, come si sente dunque interpellata una società benefit in una emergenza come questa?

Mettendo in campo la resilienza, la solidarietà e un role model per altre imprese. La resilienza ci aiuta ad attraversare la crisi e a limitare il più possibile i danni; con la solidarietà mettiamo le nostre risorse a disposizione degli stakeholders che più ne hanno bisogno e li aiutiamo ad affrontare l’emergenza; l’essere un modello per altre società benefit permette di ampliare la community virtuosa e fa sì che siano sempre di più le realtà produttive che, riprendendo la metafora voltairiana, “coltivano il proprio giardino” per creare un impatto positivo sulla società e sull’ecosistema.

Lei, che è membro anche della community of chairpersons del World Economic Forum, nel marzo scorso si era detto pronto a discutere un piano strategico per l’Italia. Poi è arrivato il Covid-19.

La mia proposta era partita da alcune constatazioni: il nostro Paese è prigioniero di un debito pubblico che negli ultimi cinque anni è inchiodato al 135% del Pil e non possiede una exit strategy grazie a cui, nel giro dei prossimi dieci o vent’anni, portare il debito al di sotto del 100%, recuperando così la credibilità perduta sui più importanti tavoli internazionali, quelli cioè dove si decide del nostro destino. Tra il Fiscal compact della Commissione europea, l’acquisto di titoli di debito pubblici da parte della banche centrali, tra il rating, lo spread e gli investimenti stranieri diretti in Italia, mi sento di dire che quasi il 50% degli investimenti che vengono fatti qui sono decisi al di fuori dei confini nazionali. La recente crisi dell’euro specialmente, e la conseguente perdita di ulteriori punti di investimento rispetto al Pil (dal 21% al 17%), hanno reso il nostro Paese talmente sotto-investito da non riuscire nemmeno a garantire la manutenzione straordinaria di quegli assets già allocati. Ciò porta inevitabilmente alla stagnazione, impedendoci di creare produttività e di smaltire quella enorme mole di disoccupazione che ci pone tra le maglie più nere d’Europa: l’insicurezza che si diffonde nei cittadini, e che viene espressa attraverso il voto, crea una instabilità politica che porta il Paese a precipitare sempre più in basso. Pensi che abbiamo mediamente un governo ogni diciotto mesi, che ciascuno di essi lavora solo sulle emergenze (distratto, d’altra parte, dal susseguirsi di scadenze elettorali) e che, pertanto, non è in grado di cantierare una iniziativa di medio o lungo termine come un piano strategico per il Paese. Prima della pandemia avevo evidenziato che questo lo poteva fare il settore privato in partnership con il pubblico, ma non senza che fossero preventivamente create le condizioni: solo così avremmo potuto avere delle raccomandazioni già per la Legge di bilancio del 2021 e si sarebbero potuti applicare i primi provvedimenti. Oggi, a emergenza in atto, posso solo rincarare la dose perché il coronavirus farà perdere un altro 10% del Pil e credo che, come è successo nel 2008, il calo sarà permanente. Non escludo, inoltre, che entreremo in una fase recessiva di tipo L.

Di fronte a uno scenario simile, che cosa dobbiamo fare?

Dobbiamo trovare al più presto una soluzione per uscirne e per meritarci gli aiuti internazionali di cui abbiamo bisogno; è necessario essere credibili e lungimiranti. Stiamo vivendo una triplice crisi: ambientale – che io considero essere la madre di tutte le crisi -, sanitaria e finanziaria, ed è necessario riunire i tre problemi in una unica strategia. Dobbiamo comprimere brutalmente nei prossimi cinque anni gli investimenti pensati per essere spalmati in un ventennio: penso al piano per la de-carbonizzazione, di cui l’Italia, per ragioni geografiche, può essere tra i maggiori beneficiari, e alla necessità di migrare dal petrolio al gas e successivamente dal gas al biogas; penso al piano di adeguamento dei sistemi sanitari, al programma di riforma dell’ordinamento dello Stato, così da far viaggiare la burocrazia più speditamente del virus, e ad un pacchetto di stimoli fiscali senza precedenti che faccia schizzare in alto gli investimenti. Sono convinto che permarranno i cambiamenti allo stile di vita e all’organizzazione del lavoro ai quali ci siamo dovuti adattare in questi mesi: faremo, quindi, più smart working, più acquisti in home delivery e meno nei negozi tradizionali, meno viaggi e meno eventi che richiedano assembramenti di persone. Non faremo più, insomma, molte delle cose insostenibili che facevamo prima.

E l’impresa Illy, come prevede di uscire dalla crisi?

Cogliendo l’opportunità che questa ci offre. Riequilibreremo i nostri business: il caffè e l’alimentare. I 2/3 degli oltre 100 mila pubblici esercizi nei 140 Paesi in cui serviamo il nostro caffè sono ora chiusi mentre è in veloce crescita, proprio in conseguenza del lockdown, il canale alimentare. Tracceremo il consumatore così da offrire lo stesso servizio in ogni luogo di consumo, al bar come a casa; investiremo ancor più sull’ambiente e sull’agricoltura sostenibile del caffè. Lo scorso anno mi sono preso un sabbatico per studiare un modello di economia circolare che ho chiamato Virtuous agricolture e che ci vedrà trasferire conoscenza nei Paesi produttori di caffè. Con tutta la solidarietà, il rispetto e la partecipazione umana per le vittime del Covid -19 e per il personale sanitario, auspico che questa pandemia possa essere una occasione preziosa per la nostra società ormai in decadenza: una opportunità da non perdere per risvegliare i nostri valori di altruismo, solidarietà, prosperità e progresso.

Monica Zornetta (Avvenire, 18 aprile 2020) 

Il link: https://www.avvenire.it/economia/pagine/illy-ripartire-dalla-sostenibilit

Il pdf:  illy698225790.pdf