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La ripartenza del Paese, con buona parte delle attività produttive e industriali di nuovo in funzione, ci sta ponendo di fronte alla necessità di avviare cambiamenti sociali e culturali quasi impensabili fino a pochi mesi fa. Cambiamenti che attribuiscono significati (e valori) del tutto nuovi ai concetti di spazio e tempo e che ci obbligano a ripensare le nostre abitudini, le nostre relazioni, la nostra formazione, il nostro lavoro.

Abbiamo chiesto a Giovanni Costa, professore emerito di Organizzazione aziendale e Strategia di impresa all’Università di Padova, fondatore del Dipartimento di Management dell’Ateneo di Venezia e dell’incubatore universitario di impresa Start Cube, che Italia è quella che si appresta a vivere la Fase 2.

«E’ una Italia in cui sta repentinamente cambiando il senso di due variabili: la distanza e la prossimità. Faccio un esempio: quasi tutte le aziende si sono dotate di open space allo scopo di favorire quello che da sempre è considerato un valore: la relazione sociale, l’interscambio tra le persone. Con le misure anticontagio, tuttavia, il valore non è più la vicinanza ma la distanza e ciò porta a scoprire la possibilità di lavorare in remoto, di usare in maniera efficace tutti gli strumenti di interazione digitale che abbiamo a disposizione. Un altro esempio è quello delle grandi concentrazioni urbane, rivelatesi in questi mesi un vero e proprio disvalore: in tal caso, eliminando gli spostamenti all’interno di questi spazi ci sono state ricadute positive che non pensavamo possibili, malgrado l’assenza della prossimità. Anche se dovesse arrivare presto un vaccino e il problema del virus dovesse essere eliminato completamente nel giro di qualche mese o di un anno, il ricordo di questa esperienza collettiva durerà ancora a lungo e determinerà il mutamento dei comportamenti».

Con quale altro cambiamento sostanziale dovremo fare i conti?

«Con la variabile tempo. Se vogliamo usare al meglio gli spazi di lavoro, privati e urbani dobbiamo collegare questa variabile con quella del tempo: cambiando il sistema degli orari, poniamo caso, riusciamo a far sì che le misure di social distancing siano compatibili con la necessità di prevenire il contagio. Mi spiego meglio: le sincronizzazioni urbane – in cui tutti vanno al lavoro alla stessa ora e tornano a casa alla stessa ora usando gli stessi mezzi pubblici – sono, ora più che mai, dei disvalori; quindi, se devo limitare, o perfino ridurre del 60%, la capienza di un tram, di un autobus, di un treno, devo fare in modo che gli orari siano scaglionati.

Non è semplice mettere insieme tutte le tessere del mosaico.

«No, infatti, perché con una vita sociale ed economica de-sincronizzata, aumentiamo sì le potenzialità ma anche i problemi: penso soprattutto alla negazione dell’identità. Non si tratta di un problema da poco se consideriamo che sono proprio i sincronismi sociali a facilitare i processi identitari; un tempo avevamo il pasto in famiglia, un rito che contribuiva, con il suo potere, a creare identità e senso di appartenenza, mentre oggi abbiamo lo smart working che fa affiorare domande del tipo: chi lavora da remoto? Chi, in una azienda, conta di più o chi conta di meno?»

Quali settori o lavori vinceranno la sfida?

«La logistica, intesa nel senso più ampio, con il suo flusso di materie e di informazioni, assumerà un ruolo centrale. E poi vedo un grande spazio per tutte quelle professioni e servizi ad alta intensità emotiva, legate alla dimensione umana, che nessuna macchina potrà mai sostituire. Investiamo molto sull’intelligenza artificiale, convinti che i robot debbano fare le stesse cose degli uomini, ma ci sbagliamo: il computer sarà indubbiamente più veloce nel processare dati ma non riuscirà mai a creare il senso di una relazione. In questa società che sta cambiando ci sarà perciò un vasto margine di sviluppo per tutte quelle attività che creano significati e per le aziende che diminuiranno la scala quantitativa aumentando, al contempo, la possibilità di interazione personale. Non più megaconcerti negli stadi o imponenti manifestazioni sportive o politiche – il fordismo applicato ai servizi, in buona sostanza – bensì attività molto personalizzate, in grado di attivare relazioni sociali in una scala dimensionalmente più piccola».

Che cosa ci lascia questa crisi?

«La storia ci insegna che in condizioni estreme si creano quei cambiamenti che, diversamente, non si sarebbero quasi certamente realizzati; penso ancora allo smart working: se ne parla da anni ma senza mai applicarlo perchè tutti vi trovavano delle difficoltà. Anche l’alfabetizzazione digitale ha seguito un percorso simile: so di persone anziane che in questi mesi hanno dovuto imparare a fare bonifici bancari, o di insegnanti che prima della pandemia non avevano nemmeno gli strumenti ma che nel giro di una settimana hanno imparato a fare lezioni in teledidattica, guadagnando in questo modo il tempo per lavorare sulle motivazioni e sulle differenze di potenziale di ciascun studente. E’ vero che il Covid ha fatto emergere diseguaglianze informatiche (un terzo delle famiglie, secondo l’Istat, non ha pc o tablet, nda), ma è vero pure che ha portato alla luce un modo diverso di apprendere: penso agli archivi e ai contenuti messi a disposizione on line da tante istituzioni, comprese biblioteche e università, o agli strumenti forniti da catene editoriali, ad accesso aperto o gratuito».

A fronte di questo, su che cosa deve puntare un’impresa per continuare a crescere anche dopo il Coronavirus?

«Non solo sull’abilità di riconoscere il valore delle persone e di creare le condizioni affinché queste possano dare il loro contributo ma anche sulla capacità di perpetuare il proprio business mettendosi in sintonia con la domanda (della gente). Sono certo che avranno un futuro quelle aziende che rispettano l’ambiente e coltivano un interesse genuino per la storia della società, dei popoli, degli individui».

Monica Zornetta (Avvenire, 23 maggio 2020)