Grande Guerra. La storia dell’artigliere Ruffini, fatto fucilare per un sigaro

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Cinque colpi di fucile e il suo giovane corpo in divisa, provato dalla lunga marcia seguita alla rotta di Caporetto, ferito dalle bastonate infertegli da un adirato generale, crolla ai piedi del muro di casa Miari Supiej, a Noventa Padovana. Morto. Mentre il sigaro, l’innocuo piacere che l’artigliere serbava tra le labbra, si smarrisce a terra. Sono le quattro del pomeriggio del 3 novembre 1917 quando il soldato Alessandro Ruffini, 24 anni da Castelfidardo (An), sfila per il paesino padovano insieme con la 10a Batteria del 34° Reggimento Artiglieria da montagna, di ritorno dall’Isontino.

Il generale Andrea Graziani

Durante i primi giorni di sbando delle truppe questi soldati hanno continuato a combattere, ripiegando solo all’ultimo verso il Tagliamento e poi il Piave, per evitare l’accerchiamento nemico. Sono laceri, disarmati, affamati. Sono diretti a Padova, la “Capitale al fronte”, sede del Comando supremo dell’Esercito ma anche simbolo visibile della disfatta, “con le stanze del Comune requisite dalla “sbirraglia” – scrive lo storico Cesare Alberto Loverre, scopritore di questa storia – e le loggette del caffè Pedrocchi occupate dagli ufficiali “destinati ad andare al macello”.

Quel giorno, insieme a parecchi uomini e donne del paese, ad osservare la colonna di artiglieri marciare lungo la via c’è anche un alto ufficiale veronese, Andrea Graziani, da poco nominato Ispettore generale del movimento di sgombero delle truppe. E’ un nome temuto tra i soldati: lo chiamano il “generale fucilatore” per la sua abitudine di passare per le armi i combattenti che, a suo dire, mettono “in giuoco la salvezza dell’Italia”. E non importa se quelli mandati a morire, senza processo, sono realmente disertori o militari sbandati: basta una sciocchezza, a volte anche nulla, perché egli ne ordini la fine. I suoi bandi con i nomi dei giustiziati sono affissi nei paesi e nelle città: rappresentano il “salutare esempio” su cui fin dal 1915 preme lo zelante generale Luigi Cadorna, affinché nell’Esercito “regni sovrana una ferrea disciplina”: Nessuna tolleranza […] sia lasciata impunita […] La punizione intervenga pronta, l’immediatezza nel colpire risulta di salutare esempio”.

Quando le truppe gli passano davanti, Graziani sente delle voci ripetere: “Levati il sigaro”. Appartengono ad alcuni artiglieri e sono rivolte a Ruffini, che tuttavia non dà loro ascolto. L’ufficiale superiore a quel punto gli si avvicina e, dopo averlo sgridato, lo colpisce con un bastone. Al sindaco di Noventa, che si fa va avanti per difenderlo, Graziani urla, furibondo: “Dei soldati io faccio quello che mi piace”. A rivelare quanto è successo dopo ci penserà il quotidiano L’Avanti il 28 luglio 1919: “Lo fa buttare contro un muricciuolo il Ruffini e lo fa fucilare immediatamente tra le urla delle povere donne inorridite. Poi ordina al T. colonnello Folezzani (del 28° artiglieria campale) di farlo sotterrare”, motivandone la morte per asfissia, e riparte. Dall’estate all’autunno 1919 l’Avanti condurrà una risoluta campagna di stampa contro le esecuzioni sommarie e le decimazioni ordinate da Graziani (probabilmente più di 56 in due anni) il quale, ad agosto, verrà denunciato dal padre dell’artigliere al procuratore del re di Ancona. Nel frattempo la commissione parlamentare di inchiesta su Caporetto, istituita nel 1918, farà emergere fatti e nomi che lo inchioderanno.

L’artigliere Alessandro Ruffini

Ciononostante, a parte una messa a riposo forzata, nulla gli accadrà: con la salita di Mussolini al potere la sua stella ricomincerà anzi a brillare, anche se per poco. Promosso nel 1927 luogotenente Generale nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, la sua vita terminerà misteriosamente sul fondo di una scarpata lungo la ferrovia Firenze–Prato, il 27 febbraio 1931, a 67 anni. L’inchiesta sarà archiviata quasi subito. La figura di Alessandro Ruffini è stata di recente riabilitata ma sono ancora migliaia i soldati italiani assassinati da “mano amica” durante la Grande Guerra che attendono giustizia. Ci penserà la proposta di legge Scanu, ora all’esame del Senato, a restituire loro anche la dignità.

Monica Zornetta (Avvenire, 2 settembre 2015)