Maggi: “Io, medico e fascista, sono l’ultima vittima di Piazza Fontana”
23/11/2008

Se questo processo fosse iniziato alla fine degli anni Novanta, poco dopo il pentimento di Felice Maniero, il Veneto sarebbe di sicuro finito con il culo per terra: allora erano troppi gli interessi da difendere, troppi i personaggi pubblici da proteggere… Oggi, passato così tanto tempo, non può che andare in scena una farsa, una recita a soggetto…il signor Maniero non ha nulla di che preoccuparsi, può continuare a dormire sonni tranquilli… e come lui, molti altri… E ora ci scusi, dobbiamo proprio rientrare…”

Il gruppetto di avvocati si congeda da me con un sorriso e a passi rapidi entra in aula, in quell’aula bunker di Mestre costruita negli anni Ottanta per celebrare i processi alle Brigate Rosse. E’ qui che, a tre lustri dal pentimento di Felice Maniero (pardon, di Luca Mori, così si chiama dal Duemila), si sta svolgendo la fase dibattimentale del processo “Rialto”, l’atto di accusa dello Stato contro la mafia veneta e il suo sovrano assoluto. E’ stato infatti Maniero, negli anni Settanta, non ancora ventenne, a farla nascere; è stato ancora lui, nel 1994, dopo l’arresto avvenuto a Torino e a fronte della possibilità di godere di forti sconti di pena, a farla morire.

Quella cominciata il 15 marzo 2007 davanti al Tribunale Collegiale di Venezia è la seconda parte di un processo che ha riguardato complessivamente 142 imputati, accusati dal Pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Venezia, Paola Mossa – che ha ereditato l’inchiesta da Antonio Fojadelli, attuale Procuratore capo di Treviso, e da Michele Dalla Costa, oggi Procuratore aggiunto nel capoluogo veneto – di associazione per delinquere di stampo mafioso: la prima tranche si è conclusa due anni fa davanti al gup Roberta Marchiori con 37 condanne, 15 patteggiamenti (formula scelta anche dall’ex boss), 9 prescrizioni, 8 proscioglimenti e 2 assoluzioni. In appello le condanne sono state confermate per 18 persone e “ritoccate” di qualche mese per altre 19 per un totale di 172 anni di carcere.

Imputati in questa seconda parte sono 54 ex sodali, chiamati a rispondere di un lunghissimo elenco di reati commessi tra il 1984 e il 1994: si va, come detto, dall’associazione mafiosa alle rapine, dalla detenzione d’armi al traffico internazionale di droga (con contatti diretti con i fornitori turchi e colombiani), dall’evasione di Maniero dal carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova al sequestro di persona, dalla presunta corruzione di rappresentanti delle forze dell’ordine fino al sanguinoso assalto al treno Milano-Venezia avvenuto nel 1990 all’altezza di Vigonza, nella profonda campagna padovana, in cui ha trovato la morte la studentessa Cristina Pavesi.

In questo processo-pachiderma, considerato il numero delle parti offese dei vari reati (140),  Maniero non è fisicamente presente in aula ma è come se ci fosse.

Risponde alle domande del pm e dei legali degli imputati da un luogo protetto, in videoconferenza. E’ di spalle, seduto, indossa un giubbino turchese. I capelli scuri, acconciati come sempre a caschetto, sono illuminati da alcuni fili bianchi; il timbro della voce è monocorde, la cadenza veneta parecchio smussata.

Ripenso alle parole degli avvocati “..Troppi i personaggi pubblici da proteggere…”.

Sì, perché se la Mala del Brenta è diventata, in Italia, l’unica organizzazione di stampo mafioso nata e cresciuta in “territori non tradizionalmente interessati dalle mafie”, è stato certamente grazie al genio criminale di Maniero, “svezzato”, se così si può dire, dalla malavita locale e da alcuni mafiosi siciliani e camorristi in “confino” tra Veneto e Lombardia (da Totuccio Contorno a Gaetano Fidanzati fino ai capi dei clan Misso e Guida), ma anche grazie agli aiuti dei molti “insospettabili” – provenienti soprattutto dalle istituzioni – che in un modo o nell’altro si sono avvicinati a lui.

Del maresciallo dei Carabinieri del Ros di Padova, Angelo Paron, il militare di Udine che, così aveva dichiarato Maniero, oltre alle soffiate sulle indagini in corso forniva al boss anche pani di eroina e tantissime pallottole per la sua Beretta calibro 9, già si sapeva. Dell’ispettore della squadra Mobile di Padova Antonio Papa, la “gola profonda” che lo aveva “consigliato” di far sparire il denaro dalle banche austriache perché i suoi movimenti erano “attenzionati” dalla Criminalpol patavina, pure. In un’occasione il sottufficiale, fedelissimo del boss anziché dello Stato al quale aveva prestato giuramento, lo aveva avvertito delle cimici piazzate dalla Mobile in un hotel di Mestre in cui soggiornava il camorrista Guglielmo Giuliano, che con l’ex “enfant prodige del crimine” conduceva lucrosi business di droga.

Tutti favori, i loro, profumatamente ricompensati dal Capo con quietanze mensili di 5 milioni di lire ciascuno.

Di un magistrato si sospettava: lo stesso Paron aveva lasciato intendere che gli accordi presi con “Felix” avevano la “benedizione” di qualche giudice.

Forse di quell’Elvio Catenacci che, Giudice istruttore a Venezia, si dilettava nottetempo a frequentare il night club “Don Pablo” di Abano Terme, di proprietà di Gilberto Sorgato, fedelissimo di Maniero? In un’occasione, confermata dallo stesso boss nell’interrogatorio dell’8 gennaio 1995 davanti al Sostituto procuratore Fojadelli, Catenacci aveva perfino raggiunto, in compagnia di un’altra persona, la villa di Maniero a Campolongo Maggiore (Venezia) e da lì un ristorante della zona. Tra un piatto e l’altro il giudice aveva anticipato ai commensali di aver presentato la domanda per la Direzione nazionale antimafia tranquillizzando in particolare l’intraprendente malavitoso che, se ciò fosse avvenuto, lo avrebbe favorito in tutto.

Che cosa pensare, poi, di quell’altro magistrato che, di fronte all’intenzione di “Faccia d’angelo” di rendere ulteriori dichiarazioni, non aveva accolto la richiesta a causa della sola condizione posta: che a riceverle fosse il Sostituto procuratore Felice Casson – oggi Senatore della Repubblica in quota Partito democratico –. Ciò che Maniero voleva raccontare a Casson erano dei fatti mai riferiti prima: fatti che riguardavano anche dei pubblici ufficiali ma, poiché degli altri magistrati non si fidava, decise di non parlare più. Quelle verità mai svelate appartengono ai tanti segreti che l’ex boss, forse, non svelerà mai.

Pure di qualche avvocato un po’ troppo compiacente si sapeva. Si sapeva per esempio di Enrico Vandelli, passato dal ruolo di legale a quello di correo: era lui che portava fuori dal  carcere i “pizzini” con cui Maniero, detenuto al Pio X di Vicenza, comunicava con i suoi uomini. Per questi aiuti Vandelli nel 2006 è stato condannato a 5 anni di reclusione, ridotti a 4 e qualche mese in appello.

Si sapeva anche di un altro legale padovano, quel Ferdinando Bonon che ha prestato la sua opera per una compravendita immobiliare a Trieste rivelatasi poi una truffa architettata dal solito Maniero e dai suoi. Per questa partecipazione a Bonon è stata inflitta una condanna a 1 anno e 6 mesi.

Non è invece finito nell’inchiesta un altro dei vecchi avvocati di Maniero, il professionista che accompagnava spesso Catenacci nelle sue notti brave al “Don Pablo” (a spese di Sorgato) e che, in base alle dichiarazioni del boss, si attivava con il giudice per addomesticare alcuni provvedimenti che lo riguardavano: ad esempio la custodia cautelare. Questo legale, ha raccontato ancora Maniero nel 1995, “quando venne a colloquio in carcere mi disse che con 20 milioni da dare al giudice tutto andava a posto”. Una volta vagliata la disponibilità di Catenacci, “Faccia d’angelo” accettò la transazione a patto che li facesse uscire prima di Natale. “E infatti ottenemmo la carcerazione su cauzione giusto prima di Natale”.

Della presunta vicinanza di un funzionario del Sismi alla banda veneta – già condannata nel 1996 per mafia – si era accennato in passato. Al processo in corso a Mestre, però, se ne è parlato piuttosto diffusamente. Sarebbe stato questo ufficiale superiore dei servizi segreti, stando alle dichiarazioni del Capo, a proporre di far ritrovare un’automobile imbottita di armi al Motel Agip di Marghera per tentare di fargli ottenere la revoca della sorveglianza speciale. E sarebbe stato sempre Ciliberti a prodigarsi per recuperare il mento di Sant’Antonio, sottratto dalla Basilica padovana nel 1991, e a condurre le trattative per la restituzione di alcune opere d’arte trafugate da “Felix” e da tre suoi uomini al museo degli Estensi a Modena. Per questa accusa di corruzione nel 2006 Ciliberti è stato condannato in prima istanza con rito abbreviato.

Talvolta, però, il destino non solo è cinico ma è pure confuso. E infatti, nel maggio scorso, mentre l’ex boss della Mala seguitava ad accusarlo di questi misfatti, Ciliberti veniva definitivamente riabilitato in appello – ma era stata la stessa Procura generale a chiedere l’assoluzione – per “non aver commesso il fatto”. Secondo la Corte d’appello, Ciliberti ha fatto il suo dovere allacciando un rapporto con Felice Maniero così come gli era stato chiesto dal magistrato (per il recupero dei quadri rubati) o dai suoi superiori, al Sismi (negli altri casi).

Si sapeva poi dell’agente di custodia del carcere di Padova Raniero Erbì, l’uomo che nel giugno 1994 aveva fatto evadere il boss e che oggi, insieme al bandito sardo Graziano Mesina e all’ex capitano del Padova calcio Damiano Longhi, ha aperto una agenzia immobiliare e di turismo con sede nella città del Santo. Per Erbì la condanna a 9 anni inflitta in prima grado è stata ridotta a 3 anni e 8 mesi in appello. Anche dell’agente di polizia penitenziaria Walter Atzeni, accusato di corruzione in riferimento alla medesima vicenda, si sapeva.

E la politica? Della Mala del Brenta si è sempre detto che non ha avuto rapporti con i politici, che Maniero non nutriva alcuna fiducia in loro, che stava proprio in questa assenza la differenza tra la mafia veneta e la criminalità organizzata tradizionale. Bè, a sentire le convinte asserzioni di Gilberto Sorgato, anch’egli imputato in questo processo, le cose non starebbero esattamente così.

Sorgato, di professione rapinatore, era uno degli uomini di fiducia ai tempi in cui la Mala teneva sotto scacco il Veneto. Maniero, lui, lo conosce bene. Sa che non muoverebbe un dito senza una contropartita (meglio se a beneficio suo e della propria famiglia) e sa che non darebbe mai inizio a un progetto in assenza della matematica certezza di portarlo a termine.

Il fatto raccontato da Sorgato risale più o meno al 1991, anno del famoso congresso di Rimini in cui il Partito comunista italiano cede il passo al Partito democratico della Sinistra, il Pds. Bene, proprio in quel periodo un Maniero particolarmente sensibile ai movimenti della politica girava in lungo e in largo la provincia di Venezia, insieme al sodale Giuliano Matterazzo, per iscrivere al nuovo partito le famiglie di alcuni suoi ”soldati”.

Aveva un pacco di moduli prestampati su cui noi dovevamo apporre la firma. Al resto, ai soldi da versare per l’iscrizione, ci pensava lui”, ha ricordato Sorgato. “So che, con le buone o con le cattive, hanno firmato tutti i famigliari dei malavitosi: le mogli, le madri, le amiche, le sorelle…”. Addirittura il vecchio padre di Matterazzo, un fascista convinto che all’occorrenza metteva a disposizione della banda il garage dove fondere l’oro rubato, aveva sottoscritto. Unica clausola da rispettare: tra i richiedenti non ci dovevano essere pregiudicati. “Secondo me – ha aggiunto – Maniero può aver fatto questa cosa qui per tentare ancora una volta di farsi togliere l’odiatissima sorveglianza speciale”.

Ma chi erano questi politici? Sorgato giura di non saperlo. Forse erano persone del posto, che frequentavano il bar “Tre Spade” a Campolongo Maggiore, il quartier generale della banda dove Maniero “riceveva” tutti: anche preti, imprenditori e primari. Gli incontri avvenivano alla luce del sole, tutti vedevano tutto ma nessuno parlava.

O forse erano persone che stavano più in alto, addirittura a Roma, vicino ai centri di forza, in quei luoghi dove i suggerimenti che arrivavano (e che arrivano) da chi detiene il potere nel territorio sono da sempre molto ascoltati.

Queste cose Sorgato afferma di averle chieste nel corso del processo anche a Maniero e a Matterazzo ma nessuno dei due, ovviamente, ha ricordato. D’altronde sono ben poche le cose di quegli anni che Maniero dice di ricordare.

Ad esempio non rammenta di aver chiesto, in veste di neo collaboratore di giustizia, la misura di protezione per la compagna, Marta Bisello; per l’intima amica (di lui) Monica Mencherini, vedova di quel Sandro Radetich che, sebbene fosse il braccio destro di Maniero, è scomparso nel nulla nel 1984 (secondo alcuni ex del Brenta, ucciso per mano del boss a causa di sgarri legati allo spaccio della droga); per la madre, l’anziana Lucia Carrain e per il figlio. La mamma, tra parentesi, a dispetto delle tante accuse di corresponsabilità lanciate negli anni specialmente dall’ex fedelissimo Silvano Maritan, altro imputato di “Rialto” (fu lui a metterlo in contatto con il clan mafioso dei Fidanzati per gli affari di stupefacenti e di bische), non è mai stata inquisita. Una omissione che Maritan non ha accettato, tanto che in aula è di recente sbottato con un: “Ma cos’è, gode dell’immunità parlamentare questa benedetta donna?”. Secondo Maritan i giudici non hanno mai voluto appurare le responsabilità di Giulio Maniero (cugino prediletto di Felice) e della Carrain né hanno voluto cercare per davvero il “tesoro” provento delle attività criminose: un patrimonio valutabile in centinaia di miliardi, costituito da denaro, gioielli, ma anche opere d’arte – vera e propria fissazione del boss – di cui si sono completamente perse le tracce.

Il fatto è questo: se si accerta che Maniero non ha offerto una collaborazione piena e totale, tutti gli sconti di pena ottenuti potrebbero essere rimessi in discussione. E’ dal 1995 infatti che “Faccia d’angelo” non mette piede in galera: ciò a dispetto del gran numero di omicidi eseguiti direttamente e delle centinaia di morti provocate con lo spaccio di eroina. I più sono convinti che, nei 16 mesi in cui è rimasto sotto la protezione dello Stato, abbia rivelato solo ciò che gli faceva comodo, tenendo le labbra ben cucite sul resto.

Dall’estate del 1996 il programma di protezione non gli è più stato rinnovato a causa delle troppe violazioni delle regole a cui doveva sottostare: in particolare erano saltate all’occhio della Commissione centrale di vigilanza del ministero dell’Interno quel suo mostrarsi sfacciatamente in pubblico, spesso al volante di una Porsche, l’abbandono del domicilio segreto e l’intervista rilasciata a un quotidiano nazionale. Maniero ha tentato più volte di farsi riammettere nel programma, anche con un ricorso al Tar, ma senza successo. Di recente, tuttavia, il Servizio centrale di protezione ha disposto per lui una tutela “una tantum” sfrondata di tutti quei benefici specifici della misura.

A 54 anni, l’ex capo dell’organizzazione che ha rubato l’innocenza a un Veneto giovane e inesperto, vive oggi in una località segreta del centro Italia dove svolge l’attività di imprenditore e dove, nel frattempo, ha assaporato le gioie della quarta paternità.

Saranno stati dunque rispettati quegli accordi cui fanno riferimento le due lettere indirizzate all’allora dirigente della Criminalpol di Padova, Francesco Zonno e all’ex pm Fojadelli firmate “Cordialità, Mister X” (leggi: Felice Maniero) ?

Da queste missive, è quanto affermano gli avvocati Enrico Cogo ed Evita Della Riccia che le hanno trovate tra le pagine del fascicolo del Pubblico ministero Mossa e lette in aula nel maggio scorso, si evince che il pentimento di Maniero è stato in realtà “aiutato”,  studiato a tavolino al fine di salvare il cugino Giulio, la madre, i figli e, naturalmente, se stesso. “Studiare come si deve la mia verbalizzazione – ha scritto in una delle lettere – non è un problema: come già ho accennato ieri, mi pare sia fattibile”. E per aggiustare le sue dichiarazioni, continuano i due legali, l’ex boss non avrebbe esitato ad accusare i suoi sodali anche di fatti che non avevano commesso: come fa ad esempio nel documento inviato il 24 febbraio 1995 a Zonno. Riferendosi al duplice omicidio di Stefano Carraro e di Fiammetta Gobbo, avvenuto alla vigilia di Ferragosto del 1986 e a tutt’oggi ancora senza un colpevole, Maniero scrive: “Ora che sono certo dei veri responsabili, se verrà ritenuto opportuno nel mio prossimo interrogatorio potrei affermare che oltre ad Orlando Battistello (assassinato dall’organizzazione nel 1986, ndr) partecipò anche Luciano Calabresi (condannato nel secondo processo alla Mala istruito a Padova sulla base delle confessioni del pentito Stefano Galletto, ndr) e con il supporto dei gemelli. Non avrei problemi di eventuali contestazioni al dibattimento – precisa con la sua calligrafia un po’ incerta -: sarò inflessibile su tutto!!!

Fa uno strano effetto, infine, leggere quanto Maniero ha dichiarato nel 2001 al pm Dalla Costa: “Lei ha detto all’avvocato Ricci (in quel momento il suo legale, ndr) che non c’entra niente con le promesse fattemi dal dottor Fojadelli. Le sembra leale una tale risposta?”

Monica Zornetta, Narcomafie  n.7/8 2008