Lo scorpione del neoliberismo. Col suo morso ha vinto fallendo

Un silenzio che grida ancora. Il 1° maggio è nato sul patibolo
30/04/2025
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30/04/2025

Pare che rane e scorpioni non vadano troppo d’accordo, specialmente quando si tratta di attraversare fiumi. Una fiaba assai nota ci racconta, infatti, che uno scorpione, dopo aver convinto una rana ad aiutarlo a guadare il fiume, la trafigge all’improvviso con il velenoso pungiglione e che quando l’ingenuo anfibio, ormai morente nell’acqua, gli chiede il motivo, lo scorpione – destinato alla stessa sorte poiché incapace di nuotare – risponde che è nella sua natura e che non ci può fare niente.

Quella che è solo una favola attribuita ad Esopo che prendo in prestito come metafora, diventa una tragedia quando al posto della rana e dello scorpione ci mettiamo noi e il capitalismo neoliberista.

Proprio così: noi, cittadini di una società universale, nei panni della fiduciosa ranocchia e la dottrina economico-politica nata con la crisi delle socialdemocrazie in quelli dello scorpione (ma, si badi bene, di uno scorpione infinitamente più pericoloso di qualsiasi Aracnide esistente).

Per perseguire i propri obiettivi, che coincidono per conformazione con gli interessi di una piccola élite globale che controlla il capitale finanziario-speculativo, questo scorpione più mortifero di tutti ci ha convinti a credere alle sue illogiche ma seducenti promesse: solo un mercato senza regole crea benessere; i meritevoli di successo emergono solo dalla competizione; se lavorate di più un giorno avrete i servizi pubblici di cui avete bisogno e se guadagnate di più raggiungerete la sicurezza economica (ma se fallite, la colpa è vostra); siate egoisti, non solidali: ci penserà una mano invisibile a sistemare al giusto posto gli solipsismi di ciascuno per produrre l’agognata ricchezza.

Il neoliberismo ci ha persuasi a credere che il riferimento alla libertà su cui si fonda il nome significasse libertà per tutti, non solo per i ricchi e potenti e che il dissenso fosse qualcosa di cattivo, da reprimere e punire. E’ con questi inganni sulle spalle che siamo entrati nel “fiume”, pronti, come la rana, a condurre il neoliberismo sulla riva opposta, dove si stendono praterie vergini da saccheggiare e abbandonare.

Tuttavia, il suo pungiglione non ci ha colti di sorpresa: ci sono voluti più di quattro decenni perché imparassimo a riconoscere gli effetti di quel veleno.

E neppure il capitalismo sotto steroidi ha fatto la fine dello scorpione: è diventato, anzi, così potente e pervasivo da non essere più identificato come un’ideologia ma «come una sorta di legge naturale, come la selezione darwiniana, la termodinamica o persino la gravità: un fatto immutabile, una realtà non negoziabile».

Era stato presentato come la cura di tutti i mali e invece il neoliberismo «ha causato o contribuito alla maggior parte delle crisi che ora ci troviamo ad affrontare: l’aumento delle disuguaglianze; la povertà infantile dilagante; il degrado della sanità, dell’istruzione e di altri servizi pubblici; lo sgretolamento delle infrastrutture; l’arretramento democratico; il crollo finanziario del 2008; l’ascesa di demagoghi moderni come Viktor Orbán, Donald Trump, Boris Johnson, Jair Bolsonaro, Javier Milei; le nostre crisi ecologiche e i disastri ambientali», lo sfruttamento animale ma anche la nostra crescente solitudine, i disturbi mentali, la sfiducia e la mancanza di speranza. «Rispondiamo a queste situazioni come se si verificassero in modo isolato», osservano nel libro pubblicato nel 2024 da Penguin Random House, «senza riconoscere che derivano o sono esasperate dalla stessa ideologia coerente, un’ideologia che ha, o almeno aveva, un nome».

Già. Quel nome era stato fatto per la prima volta in una conferenza a Parigi, nel 1938, per indicare un pensiero economico alternativo al liberalismo classico e al sistema collettivista; dopo qualche anno aveva però smesso di circolare e così, mentre la religione neoliberista, con i suoi dogmi e il suo credo, si sviluppava, il nome diventava un’espressione quasi esoterica. L’occasione per uscire allo scoperto era arrivata con le crisi mondiali degli anni Settanta: «Il colpo di stato in Cile è stato l’esperimento a cui hanno attinto Margaret Thatcher e Ronald Reagan», scrivono, anche se il suo vero trionfo è stato la capitolazione di coloro che avrebbero dovuto contrastarlo, cioè i partiti democratici. In altre parole, «siamo tutti neoliberisti ora».

Gli oligarchi, non solo russi; i signori della guerra; la Brexit; il ritorno di autoritarismi, neofascismi, populismi o plutocrazie varie anche in Paesi che si considerano pluralisti (come il nostro) e l’egemonia egoriferita di coloro che nel libro vengono chiamati «clown assassini», sono alcuni dei suoi “frutti avvelenati”. A tal proposito Monbiot e Hutchinson riconoscono a Silvio Berlusconi il ruolo di «pioniere e archetipo del nuovo modello politico», di quei «clown assassini», appunto, che comandano la nostra epoca confusa con un mix di esibizionismo, buffoneria, disprezzo per la giustizia e per l’etica politica. Si tratta di personaggi che hanno conquistato il potere soffiando sull’indignazione e promettendo – in nome del popolo – di distruggere il vecchio e corrotto ordine (salvo poi far prosperare proprio corruzione e clientelismo).

Se è vero che «il neoliberismo ha fallito», come scrivono in The invisible doctrine, è anche vero che in termini di diffusione e interiorizzazione della sua visione del mondo, ha vinto. E continuerà a farlo almeno fino a quando non riusciremo a costruire una storia nuova da seguire, una storia di restaurazione con la quale sostituire la sua “favola”.

Nell’ultima parte del libro, la pars construens, gli autori suggeriscono perciò da dove partire. «La nuova narrazione deve fare leva» su tutto ciò che lo “scorpione neoliberista” ha cercato di seppellire: «Sull’altruismo, l’empatia, la cooperazione, la giustizia e l’equità, il recupero di un senso di appartenenza alla comunità, il primato del potere democratico su quello finanziario; su una democrazia rappresentativa che non esclude ma, anzi, consolida quella partecipativa; sulla costruzione di un’economia che rispetta le persone e il pianeta».

E concludono così: «Se vogliamo raggiungere questi punti di svolta sociali»– o, per tornare alla nostra metafora, se vogliamo raggiungere sani e salvi l’altra riva del fiume – «il nostro primo compito è abbattere il velo di invisibilità che protegge dalla vista pubblica sia il neoliberismo che la vera natura del capitalismo. Bisogna esporre le loro violazioni, i loro inganni. Bisogna rivelare ciò che è stato nascosto. Bisogna pronunciare i loro nomi».

Ce la faremo?

Monica Zornetta (Domani, 12 maggio 2025)

Il link: https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/neoliberismo-fallimento-successo-rnk6fdbs

Il pdf: Lo scorpione neoliberista