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22/11/2024Venerdì 10 marzo 1967, intorno alle 20. Sul palco del Club a’ Gogo di Newcastle-upon-Tyne, dopo il Marquee di Londra tra i più importanti locali di musica jazz, soul, R’n’B e rock in Inghilterra, è salito un ventiquattrenne afroamericano che con la sua band sta suonando un brano dedicato a una donna molto amata, “Foxy Lady”.
Arriva da Seattle, porta i capelli acconciati secondo lo stile afro, veste una sorta di divisa militare del 1600 in velluto, e imbraccia, come fosse un fucile d’assalto, una Stratocaster Sunburst, che suona in un modo assai curioso: con la mano destra tiene schiacciate le corde e con la sinistra le pizzica, maneggia il pick up, controlla il volume e tutto il resto.
Si chiama Johnny Allen Hendrix ma da qualche mese si fa chiamare Jimi, come gli ha suggerito il suo manager e amico Chas Chandler, il fondatore e bassista degli Animals che l’anno prima ha lasciato Eric Burdon e compagni per diventare talent scout, manager e produttore. Lo ha scoperto nell’estate 1966 a New York City, al Cafè Wha?, dove Hendrix si esibiva con il nome di Jimmy James and the Blue Flames, e portato subito in Inghilterra con un’idea ben precisa: farlo diventare una delle icone degli Swinging Sixties in Gran Bretagna e una leggenda del rock negli Stati Uniti.
Per riuscire a dar forma a questa idea – che prevede anche il reclutamento di un bassista e di un batterista inglesi con cui formare The Jimi Hendrix Experience, il gruppo, cioè, che lo affiancherà dal vivo e in studio – ha coinvolto anche il suo ex manager, Michael Jeffery, un londinese dai trascorsi come bassista jazz e agente sotto copertura per conto del British Intelligence Service. Da un paio d’anni Jeffery ha aperto a Newcastle un club esclusivo dove ogni settimana, dal mercoledì al sabato, suonano molte bands non ancora famose (ma che presto lo diventeranno): il Club a’ Gogo, dove Chandler e gli altri quattro Animals, tutti peraltro di Newcastle, si sono esibiti moltissime volte e al quale hanno dedicato persino una canzone, pubblicata nel 1965 come B side di “Don’t Let Me Be Misunderstood”.
Circondati da torri di amplificatori Marshall, Jimi e gli “Experience” stanno tenendo il primo dei due live shows programmati per quella sera: il secondo comincerà ben oltre la mezzanotte, al termine del quale il chitarrista andrà a Heaton, un sobborgo di Newcastle, dove da alcune settimane vive a casa dell’anziana madre di Chas. I due managers si aspettano il pienone per entrambi i concerti, considerato che in quel marzo 1967 il trio ha già un singolo ben piazzato nelle classifiche inglesi (“Hey Joe”), una partecipazione a “Top of the Pops” e un altro 45 giri, “Purple Haze” in uscita di lì a qualche giorno per la Track Records, l’etichetta degli Who che pubblicherà presto anche l’album di esordio, “Are You Experienced”.
Ad un certo punto dell’esibizione accade un fatto inatteso: l’americano comincia ad agitare così brutalmente la chitarra da arrivare a sfondare con la paletta una parte del controsoffitto in cartongesso che sovrasta il palco e ad incastrarla proprio lassù. Cadono sul palco grossi pezzi di intonaco, in un attimo si apre un buco mentre gli spettatori, già violentemente investiti – e forse anche tramortiti – dall’assordante onda sonora, guardano confusi, ammutoliti. Non tutti, ovviamente, reagiscono allo stesso modo: c’è anche chi esulta divertito, esaltato, ed è proprio questo che Hendrix vuole, che cerca.
Non è d’altro canto la prima volta che fa una cosa del genere: un mese prima, durante un concerto in un club di South Shields, aveva sbattuto (pare involontariamente) con la paletta della sua Strat bianca sul controsoffitto creando un buco che i gestori ripareranno solo mesi dopo.
Vuole scioccare il pubblico e per farlo suona talvolta la chitarra con i denti o la piazza dietro la schiena, facendo scorrere le dita indemoniate su e giù; un paio di giorni dopo il concerto di Newcastle, quando salirà sul palcoscenico londinese dell’Astoria Theatre, arriverà ad incendiarla, la chitarra, e ripeterà questa incredibile performance a giugno, al Monterey Festival.
Ma torniamo al buco aperto al Club a’ Gogo: contrariamente a quanto successo a South Shields, questa volta la sua Sunburst rimane sospesa al soffitto mentre Hendrix, imperturbabile, non smette di suonare.
Tra la sbigottita platea del Club a’ Gogo c’è anche uno studente sedicenne di Wallsend, Gordon Sumner, che anni dopo diventerà famosissimo con uno stravagante nomignolo, “Sting”. «Non avevo mai visto nessuno suonare la chitarra da mancino o distruggere il suo amplificatore e la sua chitarra durante una performance. Non avevo mai visto nessuno suonare così. È stato tremendo, traumatico… un’epifania! […] Ricordo frammenti di “Hey Joe” e “Foxy Lady”, ma quell’evento rimane per me una sfocatura di rumore e virtuosismo mozzafiato», racconterà molto tempo dopo, rammentando di aver deciso quella stessa sera di diventare un musicista. «[Quando tornai a casa] mi stesi a letto con le orecchie che mi ronzavano e una nuova visione del mondo: “Questo è ciò a cui aspiro”, dissi a me stesso, “Non sarò mai Jimi Hendrix, ma posso fare qualcosa”».
Fin dal 6 luglio 1962, quando ha aperto i battenti promettendo agli appassionati di musica di “ballare nel Quartiere Latino” e “ascoltare i migliori gruppi jazz inglesi”, il Club a’ Gogo si trova al secondo piano dell’Handyside Arcade, un grande e bianchissimo edificio edoardiano dalla scenografica copertura in vetro che ospita una moltitudine di boutiques coloratissime, di negozi di dischi, librerie indipendenti (la più interessante delle quali è “Ultima Thule” del poeta Tom Pickard), ristoranti, caffetterie e locali notturni molto underground. E’ un luogo di ritrovo di hippies, beats e mods ed è talmente dinamico, vivace e allo stesso tempo bizzarro da ricordare la londinese Carnaby Street: anzi, qui considerano l’Handyside Arcade la risposta del North al luogo simbolo della Swinging London.
Quelli che passano per Percy Street, dove si trova l’Arcade, o per una delle vie che la circondano, non si meravigliano più per il gran numero di giovani, in prevalenza mods, che in code lunghissime attendono di entrare al Club né per gli innumerevoli scooters parcheggiati fittamente lungo i marciapiedi.
Per questa ragione definito la Mecca del Mod, prima del concerto di Hendrix il Club a ‘Gogo ha ospitato illustri “debuttanti” come i Rolling Stones, i Cream, John Mayall’s Bluesbreakers, Spencer Davis Group ma anche band appena esplose come gli Who e artisti già noti sulla scena internazionale come Jerry Lee Lewis, Screamin’ Jay Hawkins, Wilson Pickett. Dopo Hendrix arriveranno i Pink Floyd, i Soft Machine, i Fleetwood Mac e molti altri.
Il Club ha chiuso i battenti nel 1968 per lasciare il posto ad una sala bingo mentre l’effervescente passage è stato tristemente demolito nel 1987 per costruire il parcheggio di un centro commerciale.
«La sua reputazione era talmente buona che moltissimi artisti londinesi bypassavano direttamente il Cavern Club di Liverpool per suonare a Newcastle», ricordano Jools e Paul Donnelly, due ex mods geordies da alcuni anni impegnati nella costruzione di una memoria storica da tramandare alle nuove generazioni: «Vogliamo far loro conoscere la ricchissima eredità musicale e culturale lasciata dal Club a’ Gogo, dall’Handyside Arcade e dalle subculture giovanili di Newcastle e del NorthEast», spiegano. Da tempo attivi anche nella community Mods of Your Generation, Jools, collezionista di abiti vintage dagli anni Trenta ai Cinquanta e Paul, appassionato d’arte, hanno fondato un mod club chiamato, guarda caso, “Club a’ Gogo”; hanno dato vita ad una casa editrice, la Handyside Arcade, che pubblica libri sulla scena mod degli anni Sessanta; editano un magazine; promuovono mostre e qualche anno fa sono riusciti a convincere il consiglio municipale di Newcastle a collocare una placca commemorativa nel sito di Percy Street dove sorgeva il locale.
«L’Handyside Arcade è stata un vero e proprio hub per moltissimi correnti e movimenti giovanili, compresi i punk e gli skins: parliamo di quelle che sono rapidamente diventate le tribù perdute del Regno Unito, di cui si sta smarrendo la conoscenza della storia in una società come la nostra, trasformata dal tempo» e, potremmo aggiungere, priva di veri punti di riferimento.
«Abbiamo visto che i ragazzi di oggi sono davvero molto affascinati da questa parte della realtà di Newcastle di cui ignoravano l’esistenza. Di recente», continua Jools, «abbiamo istituito anche un programma educativo chiamato “Subculture Matters” attraverso il quale promuoviamo la storia delle subculture britanniche attraverso conferenze nei colleges e nelle università».
Monica Zornetta (Domani, 4 novembre 2024)