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Dal 2014 la nuova Via della Seta passa per Nove, un paesino a sei chilometri da Bassano del Grappa e a quattro da Marostica. Qui non ci sono caravanserragli o torri di guardia a punteggiare il percorso, ma, incastonato tra i capannoni della zona industriale, c’è un laboratorio orafo che produce seta di alta qualità con cui mani sapienti realizzano gioielli apprezzati in tutto il mondo.

Questo moderno laboratorio ha un nome speciale: D’orica, scelto dai titolari, i coniugi Giampietro Zonta e Daniela Raccanello, in onore della piccole sfere d’oro che, con i fili di seta, compongono le loro creazioni. E ha una storia speciale, nata da una crisi: quella vissuta ventisette anni fa da un’azienda orafa locale dove Giampietro lavorava. “Stava per chiudere i battenti dopo la morte del titolare, lasciando a casa parecchie persone; con Daniela, che già disegnava per questa ditta, abbiamo perciò deciso di investire la liquidazione nell’acquisto di macchinari per la microfusione e provare a costruire qualcosa di nuovo”, racconta con entusiasmo l’ imprenditore, “un po’ per darci un’altra opportunità, un po’ per consentire a chi avrebbe lavorato con noi di realizzare i propri sogni”.

Dopo anni di tentativi, di esperimenti, di soddisfazioni e, anche, di delusioni, nel 2000 le cose hanno cominciato a girare grazie all’oro, all’ago, al filo. “Eravamo conosciuti come i sarti dell’oro perché lavoravamo questo prezioso metallo come se fosse stoffa”, prosegue Zonta: “Questo ci ha portati ad essere ambìti specialmente sui mercati asiatici, dove fino al 2008 abbiamo esportato il 50% della produzione. Il vero e proprio salto di qualità, però, lo abbiamo fatto nel 2014 per merito di mia moglie”. E’ estate quando lei, osservando un gioiello creato tempo prima con l’oro e con il cashmere per una cliente di Dubai, ha un’illuminazione: mescolare il metallo più prezioso con il tessuto più pregiato, la seta. “La volevamo italiana ma la filiera della seta non esisteva più da decenni”, gli fa eco la solare Daniela, “e così, dopo varie ricerche, siamo arrivati al Crea-Api (Unità di ricerca di apicoltura e bachicoltura) di Padova, la cui responsabile, una volta ascoltato il nostro progetto, ci ha suggerito di farcela da noi, la seta”.

Vi serve una piccola filanda, e l’ultima del suo genere in Europa, costruita nel 1971, è in una cooperativa sociale in provincia di Treviso”, è stato il consiglio che ci ha dato la direttrice del Crea-Api, Silvia Cappellozza: è superfluo dire che, quella filandina, l’abbiamo comprata subito”, rievocano. Nel giro di poco, D’orica forma una un’associazione temporanea di impresa con tre cooperative sociali venete, acquista dei bozzoli calabresi e restituisce vita e dignità alla filiera della seta italiana. “Lo sfruttamento della manodopera e il pesante impatto sull’ambiente sono tradizionalmente due aspetti della lavorazione serica: quella che produciamo noi vuole essere invece una seta etica, sostenibile, e con la caratteristica unica di essere nata in una azienda orafa. La Comunità Europea ha capito subito la portata del nostro progetto, che abbiamo chiamato “La rinascita della Via della Seta in Veneto” e ne ha colto il valore trasversale, dato dalle potenzialità di sviluppo, di crescita e di occupazione in tutti i settori economici (artigianato, agricoltura, industria, terziario) nonché le caratteristiche di economia circolare: nel 2015 è stato infatti presentato a Bruxelles come best practice, un modello di riferimento per i futuri progetti europei in Ricerca e Innovazione”.

Sempre l’anno scorso un lungo filo di seta ha portato D’orica ad accogliere due nuovi soci e, inoltre, ad incrociare il rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, arrivato fino a Nove per realizzare con le proprie mani, e secondo un antico rituale, le frange del talled, l’antico scialle di preghiera. “Non solo la nostra seta ma anche il nostro laboratorio è amico dell’ambiente: autosufficiente dal punto di vista energetico, è costruito con tecnologie tedesche. I macchinari che usiamo sono fabbricati su misura, e qualcuno è stato anche importato da altri settori”, precisano, mentre, nel grande spazio del laboratorio, i venti dipendenti sono al lavoro sui piccoli capolavori destinati nel 95% dei casi ai mercati americani, europei, asiatici.

La “famosa” filandina è sistemata in un altro locale, insieme alla macchina per la trattura, che consente di svolgere dal bozzolo il filo di cui è formato avviluppandolo in forma di matassa, e alla vasca dove sciogliere la sericina. A dirigere le operazioni è un giovane siciliano appassionato da sempre di bachi da seta, Salvatore Gullì, qualche anno fa volato persino in Giappone per imparare l’arte. “A volte stentiamo anche noi a credere a ciò che abbiamo creato”, ammettono i due fondatori, “e pensare che volevamo solo produrre un po’ di seta da intrecciare con l’oro!”.

Monica Zornetta (Avvenire, 17 febbraio 2017)