Shakespeare fu un ecologista. E capirebbe la crisi climatica

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05/11/2025
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Immaginiamoci per un momento che William Shakespeare tornasse tra noi e si fermasse ad ascoltare un certo Elon Musk promettere di salvare la specie umana – anzi, una piccola ma danarosa parte di essa – portandola su Marte (mentre la Terra, va da sé, continuerà a bruciare). Probabilmente il saggio inglese commenterebbe questo sogno marziano, un po’ delirante e un po’ pretenzioso, con le parole che a suo tempo assegnò a Mercuzio, nel Romeo e Giulietta: «No, se i tuoi ingegni inseguono qualcosa di illusorio, mi arrendo».

E nel caso in cui, guardingo dinnanzi a tanta megalomania, decidesse di scavare un po’ più a fondo nel personaggio, ravviserebbe quasi certamente in quell’esprit transumanista, la stessa ossessiva volontà di potere/manipolazione sull’uomo e sulla natura che a suo tempo egli attribuì a Prospero, il mago de La Tempesta.

Immaginiamoci adesso che il maturo Shakespeare riuscisse a sopravvivere alle torridissime estati che da decenni incendiano il pianeta – lui, che visse durante la Piccola Era Glaciale –, e che volesse perciò capire le cause profonde di tanto letale calore: ebbene, è lecito supporre che il “cigno di Avon” saprebbe presto arrivare al diretto responsabile, vale a dire l’essere umano e la sua Hybris.

«Sono stato troppo al sole», commenterebbe (riprendendo un gioco di parole del suo Amleto), asciugandosi la fronte madida di sudore nella vana ricerca, tra le distese di asfalto e cemento, di un albero sotto cui proteggersi. E sconsolato, citerebbe le parole di Titania nel Sogno di una notte di mezza estate: «Le stagioni cambiano […] Tutti questi mali procedono dalle nostre dissensioni; noi soli ne siamo la cagione e gli autori».

L’immortale Shakespeare non avrebbe, infatti, alcuna difficoltà a riconoscere nell’umano disprezzo per la natura e per la vita e nella mortale volontà di non sapere (per non agire), quelle stesse caratteristiche che più di quattrocento anni prima destinò, con qualche sfumatura, al suo principe di Danimarca. Quelle caratteristiche, cioè, che oggi chiamiamo eco-fobia, eco-ansia, negazionismo climatico.

“Ophelia”, John William Waterhouse, 1910 (Andrew Lloyd Webber Collection)

Certo, è chiaro come il sole (di un infuocato agosto qualsiasi) che scomodare un genio della letteratura per parlare di una crisi ecologica planetaria provocata dalle attività umane potrebbe rivelarsi un processo a dir poco temerario: è altissimo, infatti, il rischio di strumentalizzare o travisare parole scritte secoli fa proiettandole in contesti complessi come l’Antropocene (o Olocene? nda) e il global warming. Tuttavia, un recente, originalissimo saggio scritto dall’anglista Shaul Bassi e edito da Bollati Boringhieri, Pianeta Ofelia. Fare Shakespeare nell’Antropocene, ci mostra non solo che è possibile farlo ma anche come farlo.

Nel corso delle sue 139 pagine, l’autore, che insegna Letteratura inglese all’Università Cà Foscari, “usa”, o per meglio dire, “riattualizza” sei tra le opere più celebri di Shakespeare – «opere scritte e rappresentate per la prima volta più di quattrocento anni fa da un drammaturgo che conosceva solo un piccolo angolo del mondo», ricorda nella prefazione il critico letterario statunitense Stephen Greeblatt – per riflettere su di noi quale forza geomorfica in grado di modificare i cicli vitali della Terra, sul valore intrinseco della natura e sulle sfide ambientali, sociali e culturali che ci troviamo ad affrontare.

Ciascuna opera dà quindi vita a un capitolo e ciascun capitolo è identificato, a sua volta, con un colore: in questo modo il verde, tradizionalmente associato alla natura (ma che può facilmente culminare «nel subdolo green washing»), è la tinta del Sogno di una notte di mezza estate con i suoi molteplici significati e quei «semi di tendenze che sono fiorite nelle generazioni successive e hanno contribuito a plasmare la nostra condizione attuale». I famosi versi «saccheggiate alle api i favi del miele […] e strappate le ali variopinte alle farfalle, per ventilar sui suoi occhi addormentati i raggi della luna» mettono a nudo, infatti, lo sfruttamento degli animali da parte dell’Uomo, come ci conferma la versione messa in scena nel 1933 dal regista ebreo austriaco Max Reinhardt al giardino di Boboli di Firenze: l’allestimento impiegò centinaia di lucciole vive che morirono durante il trasbordo verso Oxford, dove erano attese le repliche.

Il Sogno può pertanto diventare il simbolo della crisi dell’ordine naturale e una critica «alla crescente polarizzazione tra l’Homo economicus neoliberale, un individuo isolato che massimizza il proprio interesse a spese degli altri e dell’ambiente», ma può essere inteso anche come un inno alla rinascita di un rapporto armonioso tra noi e la viva e dolente Gaia, poiché, ci rammenta ancora Bassi, l’idea di una «nostra insularità come individui e come specie è un’illusione distruttiva, una crisi delle enclosures del sé umano».

Il viola è il colore che identifica, invece, la tragedia di Amleto, personaggio che più di tutti è capace di rivelarci le origini psicologiche dell’attuale eco-fobia: Simon C. Estok, esperto di Letteratura shakesperiana, lo ha definito «un uomo la cui forte preoccupazione per la purificazione del proprio mondo sociale risulta in una putrefazione discorsiva del suo mondo naturale». Ma il viola, questa speciale cromia ottenuta dalla combinazione di rosso e blu, riveste anche quella figura che ad Amleto fa da contraltare: la bellissima e luttuosa Ofelia, con la sua abilità di riconoscere il più-che-umano vegetale in tutte le sue sfumature e di amare attivamente tutto ciò che la circonda. È lei, eco-femminista antispecista ante litteram, il character a cui oggi guardare per provare a risanare la ferita inflitta dal capitalismo alla Natura e alle donne (viste entrambe come mere merci di consumo) e per ripensare, inoltre, il rapporto tra le specie.

Mentre il blu si fa colore de La Tempesta, del mutamento marino e,  dopo la riscrittura postcoloniale praticata da autori come Aimé Césaire, del riscatto delle popolazioni indigene colonizzate (Calibano) dalle oppressioni dei colonizzatori (Prospero), il rosso rappresenta Il mercante di Venezia e Otello, con le rispettive molteplici gradazioni di xenofobie e razzismi. È Venezia, oggi città-simbolo dell’overtourism, lo sfondo delle avventure di Shylock, Porzia, di Otello e Desdemona: una Venezia che in questi tempi di crisi «consuma moltissima cultura e ne produce troppo poca, ostentando una enorme ricchezza superficiale che non aiuta a migliorare il tessuto urbano e sociale». È, ancora, «una Venezia che non ha bisogno di convertire o eliminare lo straniero per sfruttarlo, come nel Mercante o in Otello: le basta relegarlo nelle fabbriche e nelle cucine per mandare avanti la grande festa del turismo».

Se il grigio è la tonalità scelta per il Re Lear – ed è la stessa che il pensatore e architetto francese Paul Virilio accosta a un tipo di ecologia che mette al centro l’ambiente costruito e l’inquinamento percettivo, visivo e spaziale anziché quello atmosferico o naturale –, con il bianco l’autore ci parla più compiutamente del genio shakesperiano, della sua straordinaria capacità metamorfica e di adattamento, del suo essere «re dell’upcycling», del riutilizzo creativo, cioè, di opere scritte da altri ma da lui rese universali. In realtà posto all’inizio del libro, il capitolo bianco può essere inteso anche come una cassetta degli attrezzi a cui ricorrere per costruire un nuovo immaginario dove l’uomo non è più al centro del mondo ma convive, invece, con elementi non umani o più-che-umani che, «tradizionalmente trattati come sfondo dell’agire umano – un animale, una pianta, un’isola, un mare, un mostro, uno spirito” – possano acquisire nuovi significati […] una nuova soggettività».

Pianeta Ofelia. Fare Shakespeare nell’Antropocene ci insegna, infine, che rileggere il Bardo e altri grandi autori del passato in maniera eco-critica è un esercizio utile per imparare a riflettere in modo non conforme sul presente e sul futuro che vogliamo: «Provate a farlo, per esempio, mettendo al centro non più l’animale umano ma quello non umano», suggerisce Shaul Bassi ai lettori del Domani, «provate a considerare ciò che Shakespeare, in questo caso, dice non sull’uomo ma sugli animali. Credetemi, se disobbedirete alla forma per liberare il senso, vedrete il testo illuminarsi di una luce nuova».

Monica Zornetta (Domani, 15 dicembre 2025)

Il link: https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/shakespeare-fu-ecologista-capirebbe-crisi-climatica-saggio-xjo226y9

Il pdf: Domani_15_Dicembre_2025-15

In copertina: il murale realizzato dallo street artist australiano Jimmy C a Londra